Il Primo Romanticismo: Schubert, Schumann, Mendelssohn

Franz Schubert (1797-1828)

L’ultimo desiderio di Schubert — essere sepolto vicino a Beethoven — venne esaudito.

Curt Sachs scrisse:« Sebbene fedele ammiratore di Beethoven, Schubert fu in molti sensi assolutamente l’opposto. Alla immaginazione preminentemente strumentale del più anziano maestro, egli rispose con un atteggiamento fondamentalmente vocale; all’elaborazione concentrata di motivi, con melodie di largo respiro; alla maschia energia e disciplina di Beethoven, con una sottomissione quasi femminea al flusso costante dell’ispirazione. Questa arrendevolezza era romantica; come romantico fu in lui il deliziarsi, tutt’altro che beethoveniano, per la bellezza sensuosa dei suoni, per la forza caratterizzante delle modulazioni, per la giustapposizione degli allegri accordi maggiori e dei dolorosi minori. Ma, soprattutto, Schubert fu un romantico per aver trovato nel Lied il centro di gravitazione della sua opera, e per aver tratto l’ispirazione da fonti extramusicali, senza, tuttavia, sacrificare alcuna legge delle forme musicali. »

Schubert trovò nel Lied, una forma musicale che possiamo dire creata da lui, il massimo mezzo d’espressione. Egli fu il supremo padrone della melodia. Schumann affermò che « egli avrebbe scritto melodie per l’intero patrimonio poetico tedesco, se fosse vissuto più a lungo ». E se si pensa che nella sua breve esistenza compose più di seicento Lieder, con facilità e rapidità incredibili, si può ammettere che Schumann non fosse lontano dal vero. Le composizioni di Beethoven sono sostenute dalla forza dell’idea e dalla trattazione drammatica dei temi; quelle di Schubert poggiano interamente sulla bellezza e la dolcezza della melodia. Perciò, se da un lato le composizioni di questo maestro sono tutte pervase dal sentimento, dall’altro mancano di contrasti. La musica schubertiana è intensamente spontanea, nient’affatto elaborata.

Nel diario del compositore troviamo un’osservazione caratteristica: « Fantasia — massimo tesoro dell’uomo, sorgente inesauribile alla quale tutti ci rinfreschiamo — resta con noi, anche se pochi tirispettano e ti onorano. Tu sola puoi salvarci dal cosiddetto ” illuminismo “, “quell’orribile spettro senza carne e senza sangue”.

Schubert fece uso della modulazione e dei cambiamenti di tonalità con audacia assai maggiore di qualsiasi altro contemporaneo, dando così impulso a una musica che dettò legge per un secolo.

La sua produzione segna il confine tra il classico e il romantico, e le sue composizioni di maggior mole mostrano talvolta il conflitto tra le esigenze della forma classica e la libertà di espressione. Le sue musiche sinfoniche e da camera sono più diffuse delle composizioni classiche, ma hanno minor costruzione e minore linearità.

L’origine dei Lieder tedeschi va ricercata nella canzone popolare e nella poesia lirica sorta in Germania nella seconda metà del Settecento. Compositori quali Haydn, Mozart e Beethoven, musicarono la poesia del loro tempo, ma le loro musiche furono generalmente costruite secondo il modello prescritto dai concetti musicali del tempo. Essi non si sentivano di comporre melodie costruite sullo schema della poesia stessa.

I musicisti minori, che scrivevano canzoni per spettacoli musicali, usavano un mezzo d’espressione ben differente: le parole delle loro canzoni erano semplice poesia popolare, e le melodie si attenevano stretta mente al metro del componimento poetico. I più noti tra questi compositori furono Reichardt, Zeller (amico e compositore favorito di Goethe) e Zumsteeg. Tuttavia, nessuno di costoro si sforzò di andare oltre la semplice associazione esterna tra parole e musica.

Schubert, al contrario, penetrò nella poesia, e la fece rivivere in musica. Aveva, naturalmente, imparato dai suoi predecessori, e so-
prattutto da Zumsteeg, ma fin dal suo primo Lied raggiunse ciò che gli altri non avevano mai conseguito: una fusione artistica intima e indissolubile tra il testo e la musica.

« Soprattutto nella lirica vocale da camera i postulati romantici ebbero la loro prima attuazione per opera di Schubert, il vero creatore del moderno Lied tedesco.

Per la prima volta avviene che un musicista moderno, nella semplicissima forma del canto univoco, manifesti l’impressione in lui prodotta dalla parola del poeta: il compositore interpreta, o veramente ricrea la poesia » (Franco Abbiati).

« Che i Lieder di Schubert siano così pregevoli, è in parte dovuto al fatto che egli fu un cantore nato e non uno strumentista che componesse di tanto in tanto anche Lieder; e in parte al fatto che, a differenza dei suoi predecessori, egli non si limitò a adattare la musica alle parole, ma ricreò le parole in musica. La sua mente assorbì ogni singolo testo poetico ed esso divenne una parte di lui. La sua acuta intelligenza penetrò nel pensiero del poeta, la sua calda natura sentì tutto ciò che il poeta aveva sentito; ed egli cantò la poesia come cosa sua » (William Behrend).

E’ avvenuta una certa confusione a proposito della numerazione delle sinfonie di Schubert. Quando, nel 1828, il compositore morì, solo sette di tali composizioni erano conosciute e furono numerate cronologicamente.

Nel 1865, si rinvenne il manoscritto della Incompiuta, che venne indicata col numero 8, sebbene fosse stata scritta molto tempo prima della sinfonia n. 7. La sinfonia in do maggiore, detta la Grande, è divenuta quindi la n. 9, e una sinfonia in mi minore (1821), della quale ci resta solo lo schema, porta ora il n. 7.

Ed ecco la serie completa:

N. 1, in re maggiore (1813)
N. 2, in si bemolle maggiore (1815)
N. 3, in re maggiore (1815)
N. 4. in do minore (1816) « La Tragica »
N. 5, in si bemolle maggiore (1816)
N. 6, in do maggiore (1818) « La Piccola »
N. 7, in mi minore (1821)
N. 8, in si minore (1822) « Incompiuta »
Sinfonia Gastein (perduta) (1825)
N. 9, in do maggiore (1828) « la Grande »

Le prime tre vanno considerate come esercitazioni, in quanto a forma e orchestrazione, poiché furono scritte dall’autore, giovanissimo, per una piccola orchestra privata che si riuniva in casa Schubert, e della quale facevano parte il compositore stesso, il padre e il fratello.

N. 4. in do minore (1816) « La Tragica »

Adagio molto, Allegro vivace- Andante- Minuetto- Allegro
Anche nel 1816 (anno non meno eccezionalmente fecondo del precedente) Schubert compose due sinfonie, la Quarta e la Quinta, dai caratteri molto diversi. La Quarta fu ultimata il 27 aprile 1816.
Il soprannome di “Tragica” fu attribuito, a posteriori, dallo stesso

Schubert.

Questa è la sua unica sinfonia giovanile in tonalità minore, dove la scelta stessa del do minore fa pensare alla volontà di confrontarsi con tensioni beethoveniane. L’esito di questo approfondito impegno espressivo conferma peraltro l’autonomia di Schubert, sia pure con alcuni squilibri.
L’introduzione lenta è la migliore composta da lui fino a questa; l’Allegro vivace (il cui primo tema richiama il Coriolano e il Quartetto op. 18 n. 4 di Beethoven) è improntato a un’inquieta, incalzante tensione. Ma la gemma della sinfonia è l’ Andante dall’intenso respiro lirico; la prima idea preannuncia l’improptu op. 142 n. 2 e si alterna con un episodio più oscuro e teso (secondo lo schema A-B-A’-B’-A”).
Caratteri oscuri presenta il Minuetto nel cromatismo e nell’inquietudine armonica (in contrasto col Trio). Il finale ha ambizioni sinfoniche simili a quelle del primo tempo e dimensioni più ampie: anche nel suo procedere incalzante appaiono evidenti richiami a Beethoven. Questa fu la seconda sinfonia di Schubert eseguita in un concerto pubblico (Lipsia, 19 novembre 1849).

N. 5, in si bemolle maggiore.D.485

Allegro- Andante con moto- Minuetto- Allegro vivace

Quest’incantevole composizione, scritta nello stile di Haydn e Mozart, è la più significativa tra le prime sinfonie. L’autore aveva diciannove anni quando la compose e non la udì mai eseguire in pubblico.
La sinfonia, orchestrata con grazia e leggerezza (è scritta per archi, flauti, due oboi, due fagotti e due corni), trabocca di giovanile gaiezza. Mosco Carner disse che questa sinfonia è più “viennese” di tutte le altre, e sir Donald Tovey scrisse: « In ogni modo, deve ancora nascere la critica accademica che possa trovare lacune in questa piccola sinfonia in si bemolle… tutta pervasa della particolare delicatezza di Schubert; la forma di tale composizione è immune da qualsiasi rigidezza, come un delizioso bambino che abbia raggiunto una perfetta dolcezza di comportamento, non per timore o presunzione, ma per istintivo desiderio di dare gioia. » Per molto tempo si credette che la sinfonia fosse andata smarrita, ma, nel 1867, Grove e Sullivan ritrovarono l’orchestrazione in casa di Johann Herbeck, il quale aveva scoperto il manoscritto de L’Incompiuta. Più tardi, fu rinvenuto anche il manoscritto nella Libreria di Stato di Berlino. La prima esecuzione pubblica ebbe luogo nel 1873.

Sinfonia n. 6 “la piccola” in do magg.D.589

Adagio, Allegro – Andante – Scherzo -Allegro moderato
Iniziata nell’ottobre 1817, un anno dopo la Quinta, la Sesta sinfonia fu finita nel febbraio 1818. Del novembre 1817 sono le due Ouvertures D. 590 e 591 dette “nello stile italiano”, e anche il
loro inserirsi nel periodo della creazione della sinfonia testimonia la presenza di nuovi fermenti nella ricerca schubertiana.
L’attenzione a Rossini (eseguito con successo a Vienna nel 1816 e 1817) nonè peraltro il solo elemento di novità presente nella Sesta, dove si ammira la raffinatezza della scrittura strumentale (tra finezze cameristiche, come l’inizio del primo tema, e sonorità possenti) nonché la scioltezza della costruzione.
A un primo tempo di aggraziata leggerezza seguono un Andante di pacata semplicità cantabile e un ampio e vigoroso Scherzo, il primo movimento schubertiano che porti questo nome: qui è evidente l’influenza di Beethoven. Invece nel finale si notano vocaboli di gusto italiano, posti in rapporto con elementi di diverso carattere in un vitalissimo succedersi di invenzioni, che conferiscono alla composizione un aspetto composito.
Da notare che la disposizione formale (una libera successione di idee organizzate in uno schema bipartito) prelude a simili soluzioni della maturità.
La Sesta fu la prima sinfonia di Schubert eseguita in un concerto pubblico, a Vienna, il 14 dicembre 1828, poco dopo la sua morte.

N. 7, in mi minore (precedentemente n. 9)

Scritta nel 1821 a Zselesz, in Ungheria, questa sinfonia non venne però mai orchestrata dal compositore; l’orchestrazione fu effettuata da Joachim e da F. Weingartner (1934).

Sinfonia n. 9 (o n. 8) “Incompiuta” in si min. D. 759

Allegro moderato – Andante con moto
È così chiamata l’Ottava Sinfonia si minore di Schubert di cui esistono soltanto i primi due movimenti. Nel 1823 Schubert fu fatto membro onorario della Società Musicale di Graz e in segno di gratitudine prese l’impegno di dedicare una composizione alla Società. In adempimento di tale promessa, nel 1824 il musicista consegnò all’amico Anselm Huttenbrenner, presidente della Società, l’allegro e l’ andante della Sinfonia in si minore.
Schubert non ascoltò mai l’esecuzione della sua sinfonia. Huttenbrenner portò il mano scritto a casa propria, dove rimase in compagnia dei tarli per oltre quarant’anni. Lo spartito venne ritrovato nel 1865 dal direttore d’orchestra viennese Johann Herbeck il quale ne diresse la prima esecuzione il 17 dicembre dello stesso anno.

Il motivo per cui Huttenbrenner mancò di fare eseguire la composizione si può forse trovare in un apprezzamento contenuto in una sua lettera a Herbeck:”…un gioiello musicale il cui valore eguaglia quello della grande Sinfonia in do maggiore (il suo canto del cigno strumentale), e che sta alla pari con qualunque sinfonia di, Beethoven. Purtroppo, la sinfonia è incompiuta: qui sta la difficoltà. »
Il fatto che nove misure di uno scherzo fossero state scritte in partitura completa con abbozzi per il suo compimento, sta a indicare che Schubert, originariamente, intendeva terminare la sinfonia. Le condizioni in cui egli era costretto a lavorare furono addotte a spiegazione del perché non avesse scritto più di due movimenti. Il suo sostentamento dipendeva esclusivamente dalle retribuzioni che riceveva per le composizioni e per le lezioni impartite agli allievi, e quindi egli accettava sovente commissioni per il puro compenso. Le continue richieste di musica d’occasione lo tenevano intensamente occupato in un estenuante lavoro.

E’ pertanto probabile che, una volta consegnata, la sinfonia scritta a metà gli fosse a poco a poco uscita di mente. Un’altra ipotesi è che Schubert avesse giudicato lo scherzo, già iniziato, non adatto ai movimenti già completati, e avesse quindi abbandonato l’impresa.
Diversi compositori, fra cui anche Nieis W. Gade e Felix Weingartner, hanno tentato di «terminare» la sinfonia in base alle poche misure dello scherzo. In occasione del centenario della morte di Schubert (1928) una nota società discografica americana invitò i compositori a prendere parte a una gara per il compimento della sinfonia. Ma l’ iniziativa scatenò una tale tempesta di critiche, che la società cambiò il soggetto della gara in «una composizione ispirata a Schubert in omaggio al maestro». Vincitore fu lo svedese Kurt Atterberg.

I. Allegro moderato. Iniziano i violoncelli e i contrabbassi, con un tema mesto. Seguono i violini, in semicrome con un motivo indipendente, finché oboe e clarinetto apportano ancora un altro motivo. I violoncelli introducono il secondo tema, definito «il motivo più popolare del mondo».

II. Andante con moto. Questo movimento è scritto in forma sonata, ma non presenta alcuno sviluppo tematico.Temi e motivi si susseguono completandosi a vicenda Cornette e fagotti aprono il movimento con un breve motivo basato sul pizzicato discendente dei contrabbassi. Violini e viole intervengono alla terza misura con un tema semplice e commovente « E come se la mano d’un fanciullo accarezzasse il capo di un uomo affranto dal dolore.” disse Otto Schumann.

N. 9, in do maggiore (precedentemente n. 7) D.944

Andante. Allegro ma non troppo- Andante con moto- Scherzo: Allegro vivace- Finale: Allegro vivace

La Grande sinfonia, come viene definita in contrasto con la sinfonia n. 6, detta la Piccola, fu l’ultima e forse la più grande composizione di Schubert.
L’autore la terminò nel marzo del 1828, otto mesi prima di morire.
Subito dopo, venne provata dall’orchestra del Musikverein di Vienna, che la trovò troppo difficile, e si preferì sostituirla nel programma con la Piccola. La Grande venne poi eseguita solo dopo la morte del compositore (nel 1830, due esecuzioni) ; in seguito, il manoscritto venne messo da parte e dimenticato.
Durante il suo primo viaggio a Vienna, nel 1839, Schumann si recò alla tomba di Schubert e fece poi visita al fratello di lui, Ferdinand, che gli permise di sfogliare tutti i manoscritti lasciati da Franz.

Schumann scrisse: « Le ricchezze che giacciono qui accumulate mi hanno riempito di gioia. Non si sa da che parte cominciare.
Tra l’altro, mi hanno mostrato i manoscritti di parecchie sinfonie. Molte non sono mai state eseguite, o sono state messe da parte perché troppo difficili, o troppo ampollose. »

Tra questi manoscritti, Schumann trovò la sinfonia Grande in do maggiore. Ne mandò copia a Lipsia e là la sinfonia venne eseguita sotto la direzione di Mendelssohn, il 21 marzo 1839.

La composizione venne accolta con entusiasmo incredibile, e Schumann scrisse nella « Neue Zeitschrift für Musik »:«La sinfonia è stata ascoltata, compresa, ascoltata di nuovo, e ammirata con entusiasmo da tutti. Oltre a essere una composizione veramente magistrale, essa vibra di vita in ogni sua fibra. »
Le composizioni degli ultimi anni di Schubert sono spesso permeate da una profonda malinconia; la Grande, al contrario, è piena di vita e di gioia. La sua durata è di circa un’ora. Le grandi difficoltà dell’esecuzione richiedono un sensibile sforzo da parte dell’orchestra.
Dal 1820 Schubert non ebbe più occasione di ascoltare l’esecuzione di nessuna delle sue maggiori opere orchestrali; è notevole, dunque, il fatto che egli riuscisse a valutare così bene l’effetto delle insolite combinazioni di strumenti e degli audaci effetti sonori di cui esse sono colme. Come esempio di ciò che i comuni strumentisti d’orchestra pensavano della Grande, basterà citare ciò che accadde quando Mendelssohn, nel 1844, provò la sinfonia con l’Orchestra Filarmonica di Londra: durante il trio dell’ultimo movimento, gli orchestrali si abbandonarono all’ilarità. Mendelssohn s’infuriò a tal punto, che cancellò l’opera dal programma.

August Mann raccontò che, durante una prova da lui diretta nel 1856, alla fine del primo movimento il « corno » aveva gridato al « primo violino » : « Ci senti un motivo, in questa roba? »
“ Nemmeno l’ombra”, fu la risposta.

I. La sinfonia inizia con un breve motivo romantico affidato ai corni: il motivo doveva forse dare l’impressione di una foresta, ma richiama alla mente anche qualcosa di simile a una marcia di pellegrini. Il tema è introdotto dai fiati, dalle viole e dai celli, poi erompe come una fanfara dai fagotti, e tutto il suo spirito romantico è ampiamente sviluppato prima che l’andante lasci il posto all’allegro. Quest’ultimo è ben differente dal lirismo de l’Incompiuta. Il tema principale, ritmico e potente, è martellato con forza dall’intera orchestra, prima di addolcirsi in un tema secondario, svelto e grazioso, affidato ai fiati. Ci sono alcune parti incomparabili — come, ad esempio, quando il tema iniziale è ripreso pianissimo dai fagotti (uno dei più noti e dei più frequentemente citati esempi di pianissimo di tale strumento).

II. Il secondo movimento, “Andante con moto”, ha le caratteristiche di una marcia lenta. Non è improbabile che Schubert abbia preso a modello l’allegretto della Settima Sinfonia di Beethoven. La marcia di Schubert è in la minore, ma di tanto in tanto modula nel tono maggiore, con un effetto, caratteristico in Schubert, che è stato paragonato a « giochi di luci ed ombre su un paesaggio ». I motivi nascono l’uno dall’altro, susseguendosi come se il compositore non potesse rassegnarsi ad abbandonarli. Alla metà di questo movimento troviamo uno dei più noti passaggi per coro: solo poche note molto semplici, ma di un effetto indescrivibile.

III. Il terzo movimento è uno scherzo. Allegro vivace, ma ha le medesime vaste proporzioni degli altri. La parte principale, da sola, ha le dimensioni di un tempo normale ed è in forma sonata. Questo terzo tempo si apre con uno staccato degli archi, poi seguono due graziose melodie popolari. Il trio ha le caratteristiche di un valzer viennese.

IV. Il finale. Allegro vivace, e come una cavalcata senza fine su un aspro terreno. Vengono continuamente introdotti nuovi capricci e diversioni. La partitura originale rivela che Schubert ebbe per un momento l’intenzione di chiudere quest’ultimo movimento con una fuga. Ma, dopo aver scritto circa nove battute, cambiò idea. Le cancellò e continuò con un nuovo tema: dominato da quattro note ripetute. Si servì di queste quattro note per architettare una coda che, come si espresse Tovey, è « irresistibile, come se l’ultimo tocco fosse stato dato da Beethoven o da Michelangelo ».
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Le “Integrali di riferimento” di tale importante “corpus” sinfonico sono veramente poche e non particolarmente importanti sotto il profili artistico; riteniamo pertanto segnalarne solo due, quella di Karajan con i Berliner Philarmoniker e di Marriner con la “sua” Academy of St.Martin in the Fields.
Il Direttore austriaco non è mai stato un grande schubertiano, ma rimane, la sua, una versione egualmente importante per la bellezza del suono dei Berliner negli anni d’oro della loro storia e per la consumata abilità di Karajan nella dinamica e nel fraseggio ricco delle “nuances” e dei colori più vivaci.
Purtroppo le prestazioni migliori vengono espresse nelle sinfonie giovanili, mentre nell’Incompiuta e nella Grande Karajan sembra troppo ricercare l’effetto perdendo così quella freschezza e soprattutto il senso della novità così presente in tali partiture.
La versione di Marriner, senza essere particolarmente critici sulla “verve” delle sinfonie giovanili soffrendo invece di un’orchestra troppo ridotta ( anche se perfettamente equilibrata ) per le sinfonie maggiori.
Marriner inoltre non è un “inventore” particolare, ma un fine ed attento esecutore e quindi i limiti sonori accennati emergono in tutta la loro importanza negativa.
Anche tempi e dinamiche non presentano nulla di particolarmente interessante da far dimenticare l’organico cameristico e gli stessi dettagli sono presentati alla stregua di orchestre tradizionalmente più numerose e ricche di suoni.
Un’ importante novità di questa integrale è invece costituita dal ciclopico lavoro di Brian Newbould, Musicologo universitario inglese, che ha ritenuto di completare le sinfonie incompiute di Schubert attraverso un interessante lavoro di ricerca archivistica e filologica che ritengo utile esporre qui di seguito, per la prima volta nella versione italiana tradotta dall’originale a cura dello scrivente.
Sinfonia in re maggiore D. 615

(frammenti orchestrati da Brian Newbould)
Il futuro di Schubert dopo la composizione della VI sinfonia si presentava irto di difficoltà.
Alcuni mesi dopo aver composto la Sesta, il Compositore iniziò uno nuovo sinfonia, ma si perse di coraggio dopo aver accennato due frammenti al piano.
L’opera inizia con un’introduzione importante, rigorosa in re minore; arrivato all’”allegro moderato”, abbandona i nuovi orizzonti per ritornare a temi preferiti.
Schubert abbandona il movimento alla fine dell’esposizione; poi vi sono degli schizzi di un altro sulla facciata successiva del suo quaderno di musica: sarebbe logico aspettarsi un movimento lento (anche se non vi sono indicazioni di tempo), mentre è in realtà un finale.
A suffragare questa tesi è la tonalità in re maggiore qui presente: Schubert non oserebbe mai la tonalità principale per un movimento intermedio. Questo finale che dovrebbe riproporre la forma del rondò o del rondò-sonata è bruscamente interrotto al primo ritorno del grazioso tema d’apertura.
Sinfonia in re maggiore D. 708

(Frammenti orchestrati e Scherzo completato da Brian Newbould)

Negli anni 1819/20, Schubert accrebbe tanto le sue attività con l’ambizione di fare carriera nell’Opera che passeranno due anni prima di ritornare al genere sinfonico.
Questa volta abbandona per altro di nuovo il primo movimento dopo averne scritto l’esposizione in due cartelle.
Il secondo movimento ed il finale non andranno più lontano; per contro invece lo scherzo fu lasciato in uno stato abbastanza avanzato per poter essere completato grazie all’aggiunta di una sessantina di misure di ricapitolazione. Al trio non manca che una mezza dozzina di misure.
Schubert non ha ancora completato il passo definitivo che lo allontanerà dallo stile delle sue prime sinfonie. Ma lo sperimenterà in questa partitura terminata metà; è senza dubbio l’impegno e la stessa natura delle ricerche alle quali si impegna ad impedirgli di arrivare alla fine della sua opera.
Nel primo movimento la tonalità espressa per il secondo soggetto gli pone dei problemi seri e la stessa cosa accade per il finale con le sue audaci escursioni verso soluzioni solo abbozzate che avrebbero potuto trovare delle limitazioni nella realizzazione strumentale dato che la maggior parte degli strumentisti della sua epoca non erano particolarmente capaci di affrontare con la medesima correttezza tutte le tonalità e le modulazioni più ardite. Dispiace particolarmente che il secondo movimento, col suo espressivo contrappunto lirico, non sia stato completato.
Si può considerare invece lo scherzo molto più che un preliminare abbozzo di quello definitivo presente nella sinfonia in do maggiore “Grande”.

Sinfonia n. 7 si minore/ maggiore D. 729

(realizzazione di Brian Newbould)
Qualche mese dopo aver lavorato sulla D.708A, Schubert si accinge a comporre uno nuovo sinfonia che non termina.
Ma questa volta gli schizzi che lascerà sono molto differenti rispetto ai precedenti.
Chiaramente egli scrive la partitura per orchestra direttamente senza passare attraverso la parte al pianoforte. Apre con un’introduzione lenta il primo gruppo dei soggetti del primo movimento.
Poi, pensando forse che il portare avanti su quattordici righi la partitura strumentale potesse costituire un ostacolo alla sua ispirazione, si limita alla redazione di una sola parte, quella dei primi violini o quella del gruppo degli strumentini che momentaneamente esercita la parte di solista.
Così facendo arriva fino alla fine della sinfonia in quattro movimenti e scrive, dopo l’ultima doppia barra, una “Fine” di chiaro significato.
Pertanto abbiamo oggi a disposizione qualcosa come 1300 misure della sinfonia di cui 950 con una sola linea musicale.
La Settima costituisce una linea particolarmente interessante fra le prime e le ultime sinfonie: nei suoi passaggi di transizione, più che nei suoi temi propriamente detti (nei quali nei movimenti estremi testimonia ancora l’ammirazione per Rossini) anticipa sicuramente sia “L’ Incompiuta” che la “Grande”.
La presenza dei tre tromboni, che non figurano nell’orchestra delle sue prime sei sinfonie, è un’ ulteriore riprova di una prospettiva sonora futura.
Lo stesso vale per i quattro corni, al posto dei due, che corrisponde di fatto all’orchestra sinfonica dello Schubert definitivo.
I temi dell’allegro sono in relazione con quelli della introduzione: si sviluppano lungo i paragrafi di una movimento bene proporzionato malgrado l’omissione del primo tema all’inizio della riesposizione.
L’andante è intimo e poetico senza particolari contrasti marcati. Per contro lo scherzo è potente e grandioso ed annuncia, nel passaggio del trio, lo scherzo della “Grande”.

Sinfonia n. 8 in si minore D. 759 “Incompiuta”

(Completata da Brian Newbould)
Schubert aveva abbandonato la Settima sinfonia da circa un anno quando scrisse la partitura per piano della sua Ottava.
Della stessa, come noto, compose due movimenti completi e l’inizio di uno scherzo, che probabilmente non terminerà mai, non lasciando inoltre la minima traccia del finale.
Si tratta di mistero: perché offre alla Società di Musica della Stiria, a Graz, solo metà sinfonia?
E perché il Presidente della Società stessa conserva per quarant’anni una tale opera senza mai farla rappresentare?
Per il terzo movimento noi abbiamo a disposizione uno scherzo intero scritto per pianoforte ed una linea melodica della prima parte del trio. Di tale scherzo si hanno inoltre due pagine orchestrate dallo stesso Schubert.
Se si vuole completare il movimento, al fine di rendere eseguibile il materiale manoscritto, l’unica soluzione realistica consiste nel comporre, come Schubert avrebbe fatto, una seconda parte del trio basata sulla prima.
L’idea di ricorrere all’ouverture in si minore di “Rosamunda” come finale di questa sinfonia non è nuova: fu usata in occasione della prima esecuzione londinese dell’opera. Inoltre è nella stessa tonalità della sinfonia, utilizza il medesimo organico orchestrale ed adotta lo schema sul quale sono costruiti i finali delle sue prime sinfonie.
Infine è indiscutibilmente più vicina allo spirito dell’Ottava sinfonia rispetto a quello delle opere precedenti. Si potrebbe quindi pensare che proprio questa pagina fosse stata scritta per il finale originale.

Sinfonia n. 10 in re maggiore D. 936 A

(Realizzazione di Brian Newbold)

Nell’agosto e settembre 1828 Schubert crea “Il canto del cigno”, il quintetto d’archi, le tre ultime sonate per piano, la messa in mi bemolle maggiore.
Fu quindi probabilmente agli inizi del mese d’ottobre che gli intraprese la sua ultima fatica sinfonica. E questa costituisce anche di conseguenza la sesta sinfonia che egli lascia incompiuta.
Vari motivi possono essere stati alla base di questi abbandoni, fra cui forse una mancanza di perseveranza, una facilità nello scoraggiarsi di fronte alle difficoltà obbiettive di fare eseguire le sue opere o forse ancora qualche problema di composizione come avvenne nello scherzo della Ottava: si può affermare però che nel caso della Decima sia stata la sua malattia letale ad interrompere questo travaglio, dato che Schubert morì il 19 novembre 1828.
Tutto quello che è pervenuto è lo schizzo pianistico di tre movimenti: per il terzo di questi Schubert comincia a scrivere uno scherzo, poi, man mano che procedeva, lo stile ricorda sempre più un finale. Si tratta infatti di una sorta di rondò in due quarti, ma è inserito nel quadro più generale di un sei ottavi.
Da sottolineare la preoccupazione del Compositore di fronte a problemi di contrappunto. Per le sue sinfonie precedenti, Schubert aveva poco utilizzato l’uso del contrappunto più rigoroso.
Qui invece si impegna nel doppio contrappunto, il canone, l’aumentazione, il fugato e finalmente assembla i suoi due temi. Sui fogli di appunti che sono serviti per lo schizzo della sinfonia annotò (ciò è significativo) qualche esercizio di contrappunto. Questo fra l’altro tende a darci una conferma circa la data dell’opera. In effetti fu proprio negli ultimi anni della sua vita che Schubert decise di studiare contrappunto con Simon Sechter : purtroppo visse solo il tempo di prendere un’unica lezione.
La struttura del primo movimento non è chiaramente indicata nello schizzo, ma si tratta in tutta evidenza di una forma sonata a grande scala con, nei violoncelli, un secondo soggetto lirico nello stile questo del più puro Schubert .
Il movimento lento fonde la visione poetica dell’ Ottava sinfonia con la desolazione presente nel “Winterreise”. Questa struttura scarnificata sembrerebbe anticipare in qualche aspetto Mahler.
La realizzazione di questo schizzo, nell’ottica di un’esecuzione, comporta dei problemi di decifrazione, di orchestrazione (lo stile dell’opera è talmente nuovo che non si può prendere a riferimento precedenti sinfonie) e di struttura.
Però affinché tutti abbiano modo di capire ed ascoltare quelle che possono essere considerate le ultime note scritte da Schubert, è importante affrontare questi problemi ed accettare ogni aspetto speculativo di tutte le versioni eseguibili.

Esaminando le edizioni di riferimento relative alle singole sinfonie, è da segnalare una versione del 1959 di Beecham, alla guida della “sua” Royal Philarmonic di Londra, comprendente le sinfonie tre e cinque.
Si tratta di opere giovanili in cui il celebre Baronetto inglese ha modo di esprimere le sue invenzioni ed il suo dinamismo che lo resero celebre per il suo “incomparabile sapore”.
Giulini, alla guida della Chicago, si esibisce magnificamente nella quarta sinfonia grazie alla trasparenza della sua polifonia, alla bellezza del fraseggio ed al rigore del suo pensiero.
L’orchestra di Dresda, specie negli anni ‘60/’70, era considerata un vero proprio complesso di solisti: condotta da Sawallisch, ha modo di esprimere nella strumentazione schubertiana tutte le grandi doti che la contraddistinguono.
Non si può dire che Toscanini sia stato un direttore particolarmente versato per questo repertorio, ma la sua brillante e versione della Quinta, alla guida della sua NBC, è particolarmente vivace e assolutamente coerente con la partitura di questo giovane Schubert.
Altre importanti versioni della Quinta sono quelle di Klemperer con la Philarmonia di Londra, di Walter con la Columbia Orchestra, di Reiner con la Chicago.
Non ci si attende un Klemperer così sorprendentemente leggero in questa brillante sinfonia e pertanto tale nuova caratteristica, unita ad un particolare ed inedito respiro, fanno di questa versione una delle più riuscite.
Walter dal canto suo, come al solito, privilegia il lirismo ed il canto di Schubert di cui è stato anche ottimo accompagnatore al pianoforte in numerosi lieder.
In una partitura così brillante, Reiner ha modo di esprimere tutto il suo dinamismo, rimanendo peraltro affezionato ad un’immagine classica di Schubert di cui questa sinfonia è ancora espressione.
Della sinfonia n. 8 (“Incompiuta”) esistono infinite versioni veramente al di sopra della media: cerchiamo quindi di orientarci parlando di quelle che per certi aspetti diventano indispensabili.
L’Orchestra Filarmonica di Vienna diretta da Schuricht vuole raggiungere qui i suoi vertici per l’ampiezza del lirismo condotto, così almeno è l’impressione, in prima persona dal Direttore a sottolineare due espressioni scritte da Schubert particolarmente legate alla storia dell’”Incompiuta”: “Amore… Dolore”.
Jochum esprime col Concertgebouw una delle più belle versioni di questa celeberrima pagina, ricca di una vita interiore che transita dal dramma del primo movimento all’estasi serena dell’ “Andante con moto”: non vi è solo Bruckner nell’universo di Jochum, ma commossa partecipazione che rileviamo con viva e grata sorpresa.
Due le edizioni di riferimento di Furtwängler, con la Filarmonica di Berlino nel 1952 e con la Filarmonica di Vienna nel 1950.
La prima, risultato di un concerto pubblico, manifesta una presenza particolarmente elettrizzante: un sentimento d’angoscia che prende lo spettatore già dalle prime misure e lo stringe a sé fino alla fine. Furtwängler traccia qui una versione dell’”Incompiuta” fortemente vissuta drammaticamente e presentata in una connotazione fondamentalmente tragica.
Con la Filarmonica di Vienna si ritrova lo stesso ampio respiro, come pure l’intensità di un profondo lirismo, ma secondo un’ottica quasi “faustiana” in cui la violenza è meno brutale e la tragedia a sua volta riveste più le tinte di un’elegia.
La visione di Giulini, espressa con la Chicago, lascia trasparire i due aspetti dell’opera interpretati come “drammatico” il primo, “lirico” il secondo. Questa doppia faccia dell’”Incompiuta” costituisce la caratteristica più originale di questa interpretazione che verrà seguita da gran parte dei direttori delle più recenti generazioni.
Sawallisch, con l’orchestra di Dresda, ci regala forse la versione più attenta a tutti i dettagli della partitura.
La drammaticità di Prometeo, il mistero dell’attimo fuggente, la violenza del ricordo costituiscono i soggetti che il Maestro rende con la massima chiarezza.
Si potrebbe forse pretendere una maggiore partecipazione nel secondo movimento da parte del Direttore, ma questi resta sempre sopra le parti, a chiarire l’opera come un “demiurgo”, riuscendo, novello Ariosto, a non a farsi trascinare dall’opera, ma a dominarla dall’alto.
Walter dispone in questa versione della Filarmonica di New York e la differenza è palese: la sua lettura è rispettosamente viennese, il dramma del primo movimento è composto ed interiore, il lirismo della seconda parte della sinfonia è squisitamente elegiaco: affiorano i ricordi di un passato felice, mentre gli occhi si accingono ad essere inumiditi dal pianto.
Nell’”Incompiuta” di Klemperer viene espresso un Romanticismo di alta scuola, concretamente palese: si vedono le rovine di Walter Scott.
Si tratta di una versione dalle forti emozioni fin dall’introduzione oppressiva ed ossessiva come tutto il primo movimento.
Lo stesso Andante con moto perde qui il suo carattere lirico per assumere un aspetto di inquietudine assolutamente coerente con la drammaticità del primo movimento.
Rimane una delle pietre miliari della interpretazione dell’”Incompiuta” a testimoniare di che tempra sia stato l’immenso magistero di Otto Klemperer.
Toscanini legge in un modo completamente diverso questa grande pagina romantica alla luce di una luminosità e di una trasparenza che rendono meno drammatica l’atmosfera generale.
Il Maestro italiano più che al pathos sembra mirare al grande canto lirico che pure è evidente in questa pagina ed in tutto l’animo di Schubert.

Proponendoci di fornire una “mappa” d’approccio alla “Grande”, un primo basilare consiglio è quello di ascoltarla più volte ed in esecuzioni diverse: si tratta infatti di un’opera definita “lirico sinfonica” per sola orchestra, per cui non è assolutamente corretto fermarsi a “scatola chiusa” su questa o quella interpretazione.
Ciò premesso, iniziamo con Mengelberg alla guida del Concertgebouw di Amsterdam: si tratta di un riversamento in compact di una registrazione ” live” del 1939; interpretazione di tutto rispetto, condotta con tempi piuttosto stretti e quindi di notevole presa.
Il suono però è assai datato e la resa complessiva di qualità scadente; la consiglierei per gli amatori di tale opera o per chi avesse almeno altre versioni ben più recenti.
L’amante dell’esecuzione “alla tedesca”, ossia con tempi abbastanza rilassati ed ampie sonorità, può trovare in Furtwängler con i Berliner (1951) e Walter alla guida della C.B.S. (già in stereofonia nel 1962) due “Mostri sacri” da non perdere.
Si tratta di versioni che fecero epoca, pur nella loro diversità rispecchiante la personalità dei direttori stessi: ampiamente maestosa quella di Furtwängler, fortemente drammatica e ricca di sorprese fra cui un tempo staccato nel “finale” da “brivido”, tanto da mettere a dura prova i pur eccellenti professori di Berlino; leggera, poetica, danzante, decisamente viennese quella di Walter.
Pur conducendo l’ultimo movimento con apparente lentezza, Bruno Walter ci presenta un’interpretazione millimetrica, di primissima caratura tecnica, assai dinamica e soprattutto caratterizzata da un fraseggio attentissimo nell’evidenziare una serie di colori spesso ignorati da molti, anche celebri, direttori. Bellissime esecuzioni da collocare al vertice assoluto e da seguire possibilmente con partitura alla mano per apprezzarne ancor meglio i dettagli.
Trascinante come sempre Toscanini alla testa della N.B.C. in un “live” del 1953: tempi mozzafiato, “crescendo” che sono anche “accelerando”, rubati al limite delle possibilità tecniche degli esecutori: versione che si beve d’un fiato malgrado il suono monofonico un po’ compresso e naturalmente in parte disturbato dalla presenza del pubblico.
Ma chi volesse seguire questa linea ed amasse anche la stereofonia, può senza dubbio avvicinarsi a Szell con la Cleveland (1959).
Già assistente di Toscanini, il grande direttore ungherese ne ereditò il ritmo, il fraseggio strettissimo, la precisione degli stacchi e degli accordi; inoltre gli ottoni della Cleveland del tempo sono memorabili.
A nostro avviso questa fosse la più “italiana” e trascinante fra le incisioni contemporanee.
Con una certa difficoltà si può ancora reperire una incisione di Leibowitz alla guida della Royal Philarmonic di Londra (metà degli anni ‘60) che ricalca da vicino le versioni di Toscanini e Szell, con un dosaggio dei piani sonori in assoluto equilibrio, pur nella vastissima dinamica, mantenendo un fraseggio pulito malgrado “tymings” da capogiro: è il metronomo più veloce da me sentito per tale partitura.
Karajan non ci ha mai convinti in Schubert, ma la sua incisione con i Berliner (1969) va ugualmente citata per la bella prese di suono e per una precisione di assoluto rispetto.
Di ben altro valore è invece la versione di Carlo Maria Giulini con la Chicago (1977): grande cultore del repertorio romantico, Giulini fornisce una visione assai personale della sinfonia: forse un po’ lenta nei tempi centrali, ma sempre carica di pathos e di intensa partecipazione; disco prezioso soprattutto per intenditori.
Straordinariamente equilibrata la versione “live” di Böhm con la Dresda (1979): Orchestra e Direttore, grandi specialisti in tale repertorio, si intendono a memoria in una versione precisissima e di assoluto buon gusto: una vera lezione di stile.
Deludente invece Marriner nella sua integrale con l’Academy St.Martin di Londra: l’imponenza della composizione contrasta decisamente con le possibilità ed i gusti cameristici degli esecutori (una trentina) e gran parte del fascino sonoro della sinfonia va quindi perduto.
Giudizio simile può valere anche per Mackerras con L’Orchestra dell’età dell’Illuminismo: con l’intento filologico di eseguire l’opera con strumenti originali (cosa che non riteniamo proponibile per Schubert e più in generale per il repertorio da Beethoven in poi) usando un inconsueto diapason a 430 (che dà sempre un’impressione di strumenti calanti, come in realtà sono) fa scaturire una versione piuttosto “neutra” anche per specialisti; va considerata una curiosità e nulla più.
Interessante invece la riproposta in compact di Guschlbauer con la Filarmonica di Londra (1972): si tratta di un’interpretazione brillante, specie negli ultimi due movimenti in cui vi sono spunti di assoluto prestigio.
Per i collezionisti una ristampa del grande Erich Kleiber che, nell’anno della sua morte (1956), incise la sua ultima “Grande” con l’ Orchestra di Radio Colonia, complesso non eccezionale, ma che permette comunque di apprezzare l’enorme magistero carismatico di questo celebre e celebrato direttore.
Fra le incisioni più recenti ricordiamo quella di Barenboim con i Filarmonici Berlino (1987), ma solo per i suoi lati negativi, riconosciuti peraltro all’unisono perfino dai sostenitori del celebre direttore.
Anche Muti con i Filarmonici di Vienna (1987) è parzialmente deludente, vuoi per uno stacco di tempi a lui non congeniale, che per alcune libertà interpretative non particolarmente giustificate o di buon gusto. Apprezzabile invece di questa versione è la fedele riproposta di tutte le ripetizioni (e sono molte) presenti nella partitura schubertiana.
Fedele, sia pure parzialmente, a questa linea è anche Solti con la Levine medesima Orchestra viennese (1981). La sua è però una versione tradizionale, ma sicuramente più aderente allo spirito schubertiano e di primissima caratura: la citiamo fra le recenti edizioni di riferimento nonché fra le più magistrali interpretazioni del Direttore magiaro.
Levine, alla guida della Chicago (1984) usa, come spesso gli accade, la “mano pesante” con sonorità talvolta eccessive, ma nel complesso abbastanza aderente alla partitura, disponendo fra l’ altro di un’orchestra sontuosa che sa sfruttare per intero il magnifico suono ricavabile: disco popolare, ma piacevole corretto.
Infine Paita con la Royal Philarmonic di Londra (1987); specialisti (Direttore ed Orchestra) del repertorio romantico, propongono un’interpretazione frutto di profondo studio e meditazione, assolutamente coerente con il mondo romantico in cui l’Opera si colloca storicamente.
Il Maestro argentino non è mai banale, né prevedibile: istintivo, ma profondamente preparato, segue talvolta le orme di Toscanini per la foga e per il metronomo usato, ma nei momenti più lenti fa assumere all’opera un ampio respiro unito ad un preciso fraseggio.
L’ultimo movimento è una vera “fuga” nella sua accezione schubertiana, pur se intervallata dal noto motivo in do maggiore.
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Robert Schumann (1810-1856)

Sulla personalità di Schumann, Daniel Gregory scrisse: « Schumann è una delle figure più amabili di tutta la storia della musica.
Tutto ciò che lo riguarda riesce a suscitare la nostra affettuosa ammirazione: la nota di fresca giovinezza della sua produzione, con le sue melodie celestiali, le armonie contrastanti e i ritmi incalzanti; l’impetuosa, disinteressata generosità del carattere, che ci appare dai suoi scritti come dalle sue opere; le grandi debolezze, quali la frequente inefficacia della sua scrittura orchestrale, la soggettività malata del temperamento, persino il tragico smarrimento della ragione che lo colse nel fiore degli anni, e la morte prematura; e soprattutto, l’ardente lealtà verso i suoi grandi colleghi.
Se è vero che tutto il mondo ama chi sa amare, nessuno potrà restare insensibile di fronte a Schumann. »
Schumann fu un compositore romantico nel vero senso della parola. La sua musica contiene tutto lo spensierato ed esuberante entusiasmo, la sognante malinconia e la profonda disperazione della giovinezza. Nella sua concezione, l’unica funzione della musica è di esprimere i sentimenti del compositore.
Comporre non significa costruire una struttura musicale per mezzo delle note, ma dare espressione alla personalità.
Per le sue composizioni non ebbe bisogno di programmi. Per lui, la musica « bastava a se stessa ». Scrisse egli stesso sul significato della musica: « La gente trova nella musica espressioni di dolore, di gioia e di malinconia, ma non vi scorge mai le tracce della passione quali la rabbia o il rammarico, ciò che le impedisce di penetrare a fondo nell’opera di Schubert e di Beethoven, i quali ” espressero tutti gli stati d’animo “. Uno dei ” Momenti musicali ” di Schubert è talmente pieno di preoccupazioni domestiche, che potremo scoprirvi anche il conto da pagare al sarto; in un altro, Eusebio è convinto di vedere un villaggio austriaco, con le zampogno per le strade e i prosciutti e i salami appesi nei negozi. »
Ernst Bücken sviluppa ulteriormente questo concetto : « I pezzi pianistici di Schumann in effetti non sono musica a programma. Le definizioni poetiche contenute nei loro titoli furono scelte — Schumann stesso lo affermò — dopo che i brani erano già composti. Quando qualcuno dava un’interpretazione errata al significato dei suoi pezzi, egli diceva: ” Forse, quel tale crede che io concepisca l’idea di un bambino che piange e che mi accinga poi a tradurla in musica. Invece, il procedi mento è inverso. ” »
Schumann fece i suoi primi approcci con la musica attraverso il pianoforte. Ma quando, nel suo « anno del Lied », si accinse a interpretare musicalmente la poesia a lui contemporanea, lo fece con tanta comprensione e versatilità, da gareggiare con Schubert per il titolo di fondatore del Lied tedesco.
Il critico francese Robert Bernhard ha detto: « In nessun’altra sfera il genio di Schumann si rivelò così completamente come nei Lieder. Persino un pianista trova negli accompagnamenti di alcuni di questi Lieder le espressioni più caratteristiche dello stile schumanniano… Schumann andò infinitamente più in là del mondo limitato di Schubert. La sua armonia fu per il suo tempo ciò che Debussy è per il nostro: la manifestazione di un gusto infallibile e di un’attenta inventiva, a un tempo sottile e colorita, di eccezionale qualità e ricca di sfumature. Essa si identifica con l’idea melodica, la sottolinea, si piega ad essa, dandole ogni possibile ricchezza d’espressione. »
Verso il 1840 Schumann si accorse che il pianoforte era « troppo limitato » per le sue esigenze, e nel 1841 dedicò il suo interesse alla musica per orchestra, o per pianoforte e orchestra.
Negli anni successivi, sollecitato dal desiderio di scrivere composizioni impostate sugli schemi classici, col materiale tematico utilizzato e sviluppato alla maniera degli antichi maestri, si volse alla musica da camera; e, nella migliore produzione di questo periodo, egli riuscì a raggiungere una completa sintesi di fantasia giovanile e di matura potenza di espressione.
Schumann non ebbe, nella composizione per orchestra, la stessa capacità dimostrata nel comporre per il solo pianoforte; la sua orchestrazione è stata spesso criticata. Ecco come si espresse Donald Tovey: « L’essenza della sua musica è sempre l’eterna sorgente dell’entusiasmo della giovinezza, ma essa si presenta esteriormente a noi, per così dire, come se fosse in vestaglia e pantofole, circondata da un denso fumo di tabacco.»
Joan Chissel scrisse, a proposito della « opaca » orchestrazione di Schumann, che essa serve solo « a rendere oscura la struttura in se stessa e a confondere i caratteri delle parti che richiederebbero invece colori brillanti ».
È ancor più da rimpiangere che Schumann fosse spesso insufficiente sotto questo aspetto, perché le sue composizioni sinfoniche rappresentano, sotto altri aspetti, un grande passo in avanti.
La sua musica da camera è musica « pura », anche nelle composizioni in cui egli ancora « espresse il suo stato d’animo ». Joan Chissel parla a questo proposito della sua « eccezionale maestria nell’organico sviluppo della forma sonata », ma aggiunge: «Nella produzione di Schumann, il felice equilibrio tra gli elementi classici e romantici non fu purtroppo sempre mantenuto… Le cantate corali di cui si occupò attorno al 1850 ne sono un esempio. Le parole sono state messe in musica abbastanza coscienziosamente, ma a parte alcuni isolati passaggi, lo spirito è costantemente sacrificato alle regole musicali accademiche. »

Sinfonie

Delle quattro sinfonie di Schumann, nessuna è considerata dalla critica tradizionale un capolavoro. Non c’è dubbio che la tendenza marcatamente lirica del Musicista si sia trovata più a suo agio nelle forme musicali minori: si è detto che egli dominava meglio il pianoforte che l’orchestra.
Le sue sinfonie, perciò, rappresentano piuttosto degli ispirati quadri emotivi che delle strutture sinfoniche accuratamente meditate. È vero che Schumann segue sempre le normali forme sinfoniche, e che queste composizioni sono colme di lirismo spontaneo, di potenza e di energia, ma bisogna d’altra parte ammettere che mancano di un grande respiro epico e di genuina ispirazione sinfonica.
Oggi invece lo Schumann sinfonico è stato giustamente rivalutato alla luce dei nuovi studi musicologici sull’Età romantica, per cui la figura del Compositore può assumere delle connotazioni più libere e soggettive nell’architettura delle proprie opere che, fino alla metà del secolo scorso, venivano giudicate alla luce dei canoni cari alla schematizzazione “classica”.
Si pensi che la figura di Mahler, fino alla metà del ‘900, era considerata grande per l’attività direttoriale e non per quella di compositore: la citazione basti a far comprendere quale evoluzione sia avvenuta nella rivisitazione non preconcetta del periodo Romantico e Post Romantico.

N. 1, in si bemolle maggiore, op. 38 (« La primavera »)

Iniziata nel gennaio del 1841, e terminata due mesi dopo, questa composizione venne eseguita la prima volta alla Gewandhaus di Lipsia, sotto la direzione di Mendelssohn.
La sinfonia fu ispirata a Schumann dall’ultimo verso di un malinconico poema di Bottger,“Im Taleblüht der Frühling auf !” (La primavera fiorisce in tutta la vallata !).
La chiamò infatti “La primavera”. In origine aveva dato ai quattro movimenti i seguenti titoli: “Frühlingsbeginn” (Risveglio della primavera), “Abend” (Sera), “Frohe Gespielen” (Allegri compagni di gioco) e “Voller Frühling” (Addio alla primavera); ma, in seguito, li cancellò, perché non voleva che la sinfonia venisse considerata una composizione a programma.
Tuttavia, non abbandonò l’idea, come si rileva dalla sua lettera al direttore d’orchestra Taubert: «Quando dirigerete la sinfonia, vorreste infondere nei vostri esecutori qualche senso della primavera? Io ero pervaso appunto da tali impressioni quando la composi. La parte iniziale, affidata alla tromba, come se venisse dall’alto, dovrebbe sottintendere un incitamento al risveglio. Nell’introduzione che segue, ho cercato di mostrare come tutto diventa verde; forse, si dovrebbe cogliere il lento volo di una farfalla; e più avanti, nell’allegro, come tutto si armonizza gradualmente ! La primavera è arrivata ! »
I movimenti sono:
I. Andante un poco maestoso. Allegro molto vivace.
II. Larghetto.
III. Scherzo, molto vivace.
IV. Allegro animato e grazioso.

N. 2, in do maggiore, op. 61

«Ho avuto nell’orecchio per alcuni giorni un suono di trombe e di timpani (trombe in do maggiore). È una cosa che non so spiegarmi. » Così scriveva Schumann in una lettera a Mendelssohn del 1845.
Fu quello l’inizio della Sinfonia in do maggiore, di cui Schumann buttò giù lo schema tra il 12 e il 28 dicembre 1845. La sinfonia venne eseguita l’anno successivo, il 5 novembre, sotto la direzione di Mendelssohn; ma non ottenne successo, forse perché Mendelssohn l’aveva posta in fondo a un lungo programma.
L’opera è considerata da molti come la più grande composizione sinfonica di Schumann, e, almeno per l’ampiezza, il giudizio è esatto.
« Qui non si tratta di una serie sconnessa composta da quattro movimenti, ma di un’idea poetica, realizzata attraverso uno svolgimento tematico. La sinfonia è un canto di battaglia e di vittoria, di eroi e di tragica fatalità, ma non vi mancano atteggiamenti di dolce lirismo » (W. Dahms).
I. Sostenuto assai. Allegro ma non troppo.
II. Scherzo. Allegro vivace.
III. Adagio espressivo.
IV. Allegro molto vivace.

N. 3, in mi bemolle maggiore, op. 97 (« Renana »)

Schumann la scrisse dopo essersi stabilito da poco a Düsseldorf, dove ne fu data anche la prima esecuzione, il 6 febbraio 1851, sottola direzione dell’autore stesso.
È l’ultima sinfonia composta da Schumann. « La Sinfonia in mi bemolle maggiore ci rivela uno Schumann felice, giubilante, pronto a pronunciare un ” Sì ! ” incondizionato di fronte alla vita e a tutta la sua bellezza; un vero inno alla gioia.
“La vena dell’artista fluiva così copiosamente che la sinfonia fu scritta nel giro di cinque settimane » (W. Dahms).
Il movimento “Feierlich” (solenne), inserito tra l’andante e il finale, deve essere considerato come una introduzione, ampiamente concepita, all’ultimo movimento. Schumann in origine aveva dato il titolo « Nello stile di un accompagnamento a una cerimonia solenne », poiché gli era stato ispirato da una cerimonia religiosa a cui aveva assistito nella cattedrale di Colonia. Ma, in seguito, omise la definizione.
I. Vivace.
II. Scherzo, molto moderato.
III. Moderato.
IV. Andante maestoso.
V. Vivace.

N. 4, in re minore, op. 120

Questa è, in realtà, la seconda sinfonia di Schumann, poiché la prima stesura risale al 1841. Egli l’aveva intitolata “Rapsodia sinfonica”, perché andava eseguita senza alcuna interruzione e con questo titolo fu eseguita a Lipsia il 6 dicembre 1841.
L’opera non riscosse il plauso tributato alla Prima Sinfonia, e Schumann l’accantonò per circa dieci anni.
Poi, ne modificò completamente l’orchestrazione, e nella nuova veste, la sinfonia venne ripresentata a Düsseldorf, il 6 febbraio 1851. Essa porta la seguente strana dedica a Joachim: « Quando le prime note di questa sinfonia furono create, Joseph Joachim era ancora un bambino. Da allora, la sinfonia, ma soprattutto il bambino, sono diventati veramente grandi. »
I. Andante ma non troppo. Vivace.
II. Romanza, andante ma non troppo.
III. Scherzo.
IV. Vivace.

Concerto per pianoforte, in la minore, op. 54

Il concerto fu terminato nel 1845 e presentato al pubblico per la prima volta nel dicembre dello stesso anno, a Dresda; direttore Ferdinand Hiller, solista Clara Schumann.
Il primo movimento esisteva già dal 1841, col titolo «Rapsodia per pianoforte e orchestra», ma a quell’epoca nessun editore aveva voluto pubblicarlo. Schumann aggiunse gli altri due movimenti quattro anni dopo, e apportò poi alcune piccole modifiche per una esecuzione tenuta a Vienna nel 1847.
Non è un acrobatico pezzo per virtuosi, ma una composizione romanticamente poetica, e occupa un posto particolare tra i concerti per pianoforte.
Schumann scrisse in una lettera a Clara: « Questa composizione è qualcosa tra una sinfonia, un concerto e una grande sonata. Sapevo di non poter scrivere un concerto per virtuosi. »
Dapprima il concerto non suscitò grande impressione. La parte del pianoforte sembrava troppo poco brillante, e Liszt la escluse dal suo repertorio, ciò che, più tardi, rimpianse.
Quando Clara Schumann lo eseguì a Londra nel 1856, un critico osservò che ella aveva fatto « un lodevole sforzo per far passare per musica la strana rapsodia di suo marito ».
Robert H. Schauffler scrisse: «L’essere così ciecamente incompreso dai contemporanei, come accadde a Schumann, è spesso indice di vera grandezza. Noi moderni ci siamo oggi accorti che quel democratico insieme di piano e orchestra è il più grande tra i capolavori in la minore. E non ci spiace affatto di rinunciare a diguazzare in quel pantano di pura tecnica, che fu il vizio della maggior parte dei precedenti concerti. »
I. Allegro affettuoso.
Come gli ultimi due concerti di Beethoven, anche questo rompe la tradizione classica affidando al pianoforte l’entrata prima che l’introduzione orchestrale abbia presentato il materiale tematico.
Il concerto segue generalmente la forma sonata, ma questo tempo
è interrotto da un tranquillo interludio in la bemolle.
Segue una serie breve ed energica di accordi del pianoforte, poi il tema è introdotto dagli strumenti a fiato e ripreso infine dal solista: la prima battuta di questo tema costituisce la base dello sviluppo della coda, mentre la seconda e la terza battuta danno origine al tema del secondo e terzo movimento.
II.Intermezzo, Andantino grazioso.
Comincia con un dialogo tra il pianoforte e gli archi. La parte centrale contiene un’affascinante melodia per violoncello. Dopo una ripetizione del dialogo, il solista e l’orchestra passano bruscamente al vivace terzo movimento.
III.Allegro vivace.
Qui il piano tesse una rete scintillante attorno alle melodie dell’orchestra.
Si è detto che questo concerto fu imitato da Grieg nel suo altrettanto famoso Concerto per piano in la minore. Ci sono effettivamente dei punti di contatto tra le due composizioni. Entrambe cominciano con una successione di accordi al pianoforte, e il tema principale è presentato alternativamente dall’orchestra e dal solista; c’è inoltre una certa rassomiglianza nello spirito e nella costruzione. Il fatto che siano entrambe nella medesima tonalità può essere puramente accidentale.
Tutti i concerti di Schumann sono in tonalità minori, nonostante l’osservazione che egli stesso fece in un suo articolo: « I quattro quinti dei più recenti concerti che abbiamo esaminato per i nostri lettori sono scritti in minore. C’è quasi da temere che la triade maggiore scompaia definitivamente dal nostro sistema tonale. »
Concerto per violoncello, in la minore, op. 129
Composto nell’ottobre del 1850, questo concerto non venne eseguito che nel 1860, anno in cui si celebrava il cinquantesimo anniversario della nascita di Schumann.
Per molto tempo il concerto non fu apprezzato, ma oggi è considerato tra le composizioni più significative per violoncello, alla stessa stregua di quelle di Haydn e di Dvoràk.
Tra gli altri meriti particolari, si potrebbe citare la perfetta adattabilità dei cantabili allo strumento.
I. Allegro ma non troppo.
II. Andante.
III. Molto vivace.

Concerto per violino, in re minore

Fu l’ultima fatica di Schumann, e fu composto quando ormai l’equilibrio mentale del maestro era già molto scosso. Non fu né pubblicato, né eseguito mentre l’autore era in vita.
Dopo la morte, la moglie ed i due intimi amici, Brahms e Joachim, decisero che non fosse il caso di farlo stampare o eseguire, poiché non era degno di Schumann.
Nel 1935 l’opera fu riscoperta ed eseguita per la prima volta dal violinista Georg Kulenkampff, contro la volontà della figlia di Schumann, Eugenie, che era ancora vivente.
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Fra le integrali di riferimento delle sinfonie di Schumann, almeno due meritano una segnalazione particolare soprattutto per l’omogeneità della qualità interpretativa oltre, ovviamente, al grande livello della stessa: quella di Sawallisch alla guida dell’orchestra di Dresda e di Kubelik nella prima versione con i Filarmonici di Berlino.
La critica ha sovente considerato Sawallisch un grande Direttore nel repertorio wagneriana anno e Post Romantico, mentre oggi si tende a rivedere le sue collaborazioni con le migliori orchestre tedesche anche nel repertorio precedente con particolare riferimento a Schubert e Schumann. Alla luce di ciò per il e dello splendido strumento costituito dall’orchestra di Dresda, si può ritenere che le quattro sinfonie di Schumann siano interpretate sempre con la più omogenea delle dinamiche offrendo una lettura vivace ed eloquente, di terra di particolari di finezza, attento a alle annotazioni di colore, insomma una grande versione da conservare con la massima attenzione anche per il profondo magistero che vi si legge.
Kubelik alla guida della Filarmonica di Berlino ci ha lasciato un’integrale assai vivace in cui sottolinea i numerosi colore presenti in Schumann e, grazie a tempi particolarmente spediti il ritmo presente in questa sinfonia. In questa sua prima versione ha fornito una prova assai brillante soprattutto nella prima terza e quarta sinfonia il cui tempi veloci sono particolarmente coerenti ed assolutamente godibili.
Karajan, qui come in Schubert, convince soprattutto per la sonorità dei suoi Berliner e per la la qualità assoluta del lavoro e del risultato orchestrale. Si avverte peraltro che siamo un un po’ fuori dal suo repertorio d’eccellenza, per cui questa integrale che rimane in qualche modo riusciva per la superba confezione delle partiture, un un po’ meno per la profondità e per la partecipazione del Direttore nell’interpretazione delle stesse.
In gioventù Riccardo Muti ha fornito un’integrale delle sinfonie di Schumann alla guida della Philarmonia di Londra.
L’unica sinfonia che effettivamente rimane da citare di tale versione è la Seconda.
A suo tempo si è notato un’apparente squilibrio fra il suono dei violini e delle viole che risultano in qualche modo subire la sonorità di quelli. Se invece leggiamo scrupolosamente la partitura, ci accorgiamo che la lettura di Muti è particolarmente attenta alle maggiori e minori sonorità di alcune sezioni degli archi, frutto della lettura testuale della notazione.
La terza sinfonia di Schumann “Renana” è fra le più eseguite anche al di fuori delle edizioni integrali e pertanto riteniamo di dover segnalare almeno due eccezionali interpretazioni di tale splendida pagina orchestrale: quella di Schuricht con l’orchestra sinfonica di Stoccarda del 1960 e quella di Giulini alla guida dell’orchestra di Los Angeles nel 1980.
La prima esprime una nobile concezione d’insieme, dai tempi vigorosi, fortemente e personalmente interpretati, che rimane ancor oggi una versione superba ed assolutamente coerente con lo spirito di questo grande Direttore tedesco.
L’edizione di Giulini sorprende per il ritmo stranamente contenuto e per la sua magniloquenza, sempre attenta per altro a non sfociare mai nella retorica, per rimanere nell’ambito di un’ampiezza maestosa.
Giulini riesce a ottenere dall’Orchestra americana un suono costantemente alto in fatto di luminosità e contemporaneamente capace di esprimere una pulsazione lirica attraverso una bellezza plastica, quasi tangibile, delle sonorità orchestrali.
È forse l’unica Renana che possa stare alla pari di quella di Sawallisch.
A proposito della sinfonia n. 4, opera 120, vorrei ricordare un incontro personale con Carlos Paita, in cui fra i vari argomenti di conversazione, si parlò proprio delle interpretazioni di ideali di questa sinfonia.
Si ricordava entrambi la versione di Furtwängler del 1953 alla guida dei Filarmonici Berlino e delle parole del grande Maestro tedesco che suonavano più o meno così: “occorre del tempo per lavorare su questa sinfonia; questa pagina non vale assolutamente nulla se viene suonata in modo superficiale”.
Dall’ascolto diretto nella versione di Furtwängler si capiscono le ragioni delle parole esposte: pagina fortemente romantica, ricca di trappole impietose per interpreti non tecnicamente superiori, la quarta sinfonia di Schumann acquista, grazie a Direttori ed orchestre di primissima caratura una dimensione fortemente trascinante, mentre all’opposto, appena venga abbassata la tensione generale, il tutto si spegne ed allora veramente la pagina ha ben poco da dire.
Si comprende pertanto come la versione di Furtwängler, con un la sua interpretazione personalissima, i suoi ritmi del tutto rivisitati, le sue strette rese al limite delle possibilità orchestrali, abbiano contribuito a far passare alla storia questa versione come una delle più grandi interpretazioni sinfoniche, non solo di Schumann, ma dello stesso Direttore berlinese, che varrebbe a dire un capolavoro assoluto nella storia della sinfonia.
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Dei concerti di Schumann sicuramente quello per pianoforte è il più eseguito e tutti i grandi della tastiera si sono cimentati in questa splendida pagina rapsodica.
Due le versioni che si staccano assolutamente dalle molte altre brillanti: quella di Dinu Lipatti accompagnato dalla Philarmonia di Londra diretta da Karajan e di Clara Haskil con l’Orchestra Filarmonica dell’Aia diretta da Wilhelm van Otterloo.
Lipatti sa coniugare tempi da capogiro al più geniale e raffinato gusto Romantico. Quanto di finezza di bontà di delicatezza di musicalità si può leggere in questa eccezionale pagina di Schumann viene raggiunto dal Pianista romeno e presentato in tutto il suo splendore. È stato scritto che da questa partitura si può leggere il suono dell’amore che Schumann nutriva per la moglie Clara e che Lipatti più di ogni altro interprete ha saputo cogliere e presentarci questo momento di immenso romanticismo.
Clara Haskil è particolarmente attenta alla sincera tenerezza di Schumann, non lasciandoci sfuggire nessun momento d’amore che possa essere espresso da un pianoforte. La sua interpretazione, fu scritto, sembra un’intima confidenza di un cuore che non ha paura di manifestare i propri sentimenti attraverso una grazia di un pudore vissuto. Ci fornisce motivo per una lunga meditazione che trascende il messaggio musicale per aspirare a dischiudere l’umanità più profonda di Robert Schumann.

Un’altra grande pianista, appartenente alla generazione successiva, Marta Argerich, accompagnata dalla National di Washington diretta da Rostropovitch, punta alla “voluttà suprema”. Il suo temperamento passionale, il suo fuoco, l’entusiasmo della giovinezza, il più folle romanticismo si trasforma in un lirismo straordinario che ci presenta un altro aspetto di Schumann Romantico interprete di grandi passioni estreme.
Rudolf Serkin, accompagnato da Ormandy con la “sua” Philadelphia, c’impressiona per la la versione alla terra di questo concerto. Il suo tocco superbo trasforma in Romanticismo di Schumann Secondo un colore vagamente epico, tanto si inserisce in una visione più larga e generosa, amplificata messa in rilievo da ogni dettaglio in funzione di un rigore classico in un temperamento Romantico fusi in una ammirevole sintesi.
Geza Anda, assieme ai Berliner Philarmoniker diretti da Rafael Kubelik, è particolarmente attento a evidenziare le new a non sono di questa pagina e soprattutto la sua natura tedesca attraverso la simbiosi “forza- tenerezza” portato sempre in primo piano.
Ecco quindi una versione dove l’opera è suonata nello stesso tempo in modo grandioso e sublime, in timore quotidiano come fosse la lettura del diario di Schumann.
Il tocco di Anda, la direzione di Kubelik ed il suono dei Berliner costituiscono un insieme difficilmente dimenticabile.
Esiste ancora una versione del concerto nella sua prima concezione di Fantasia rapsodica, quella di Malcolm Frager con la Royal Philarmonic diretta da Jasha Horenstein: è una versione non solo interessante sotto profilo della storia di questa partitura, ma fortemente lirica ove il Romanticismo temperamentale del Solista e del Direttore si trovano in un felice connubio.
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Del concerto per violoncello orchestra in una minore opera 129 Rostropovitch ha lasciato almeno due versioni di riferimento: la prima con l’orchestra Filarmonica di Leningrado diretta da Rozdestvenskij e la seconda con l’orchestra nazionale di Francia diretta da Bernstein. Il solista e prestigioso e nel movimento centrale vicino a sublime: Rostropovitch ha sempre amato questa pagina fortemente romantica e nella sua seconda versione si avverte un’evoluzione verso l’accentuazione più intima della partitura, allargando leggermente i tempi in funzione di una dimensione più tragica che lirica. Rimane dell’ardore giovanile della medesima intensità che trova ora come allora il suo sublime nel secondo movimento, l'”andante”.
Un altro grande violoncellista cimentatosi in questo concerto è André Navarra accompagnato dall’orchestra Filarmonica Ceca diretta da Karel Ancerl. Questa versione una delle più grande del concerto di Schumann. Il solista libera la fantasia e alla luce di un classicismo e voluto il puro. E stranamente equilibrato il vigore della sonorità viene portato in funzione della poesia che tendere di persona tenerezza. La partitura orchestrale è fortemente in mano al direttore assecondando Navarra in una delle sue più celebri interpretazioni.
Pagina assai poco visitata dai grandi solisti dell’archetto, il concerto di Schumann viene oggi riproposto specie dei giovani violinisti, ma rimangono un po’ tutti i lontani dall’edizione di riferimento fornitaci da Szering accompagnato dall’orchestra sinfonica di Londra diretta da Antal Dorati.
Grazie alla sua tecnica cristallina il solista sa cancellare tutti gli aspetti “posticci” presente nella partitura alla luce di una ricreazione di unità “alternativa” che rende il concerto particolarmente apprezzabile. Dorati da par suo sa dosare con sensibilità ed efficace a le sonorità orchestrali e evidenziando per quanto possibile tutti gli aspetti “nobili ed artistici” di questa pagina di Schumann.
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Felix Mendelssohn Bartholdy (1809-1847)

La musica di Mendelssohn fu notevolmente popolare durante la vita del compositore. Egli veniva paragonato a Mozart, mentre Schumann, fra i tanti, lo considerava effettivamente un dio.
Più tardi godette la più alta stima di compositori quali Brahms e Reger.
Dopo il 1850, tuttavia, i violenti attacchi di Wagner contro gli esponenti musicali ebraici, cominciarono ad avere effetto e la buona stella di Mendelssohn si offuscò, eccezion fatta per l’Inghilterra. Venne definito un accademico blando e superficiale, Debussy lo chiamò « quell’elegante avvocato a buon mercato ». Nel periodo nazista, si raggiunse il culmine con un’ordinanza che vietava l’esecuzione delle sue composizioni, per la sua origine ebrea.
Che il giudizio estetico sulla musica di Mendelssohn abbia subito un così facile e completo rivolgimento in meno d’un secolo, può forse essere spiegato dal fatto che Mendelssohn fu senza dubbio un compositore romantico, nel significato abituale della parola.
E in un periodo romantico quale fu la seconda metà del XIX secolo, le istanze erano per la passione incontrollata, un’emozione ardente e il rifiuto di ogni forma convenzionale. Ogni genio vissuto in tale periodo doveva, per definizione, essere infelice. Da questo punto di vista la qualifica di « romantico » non si addiceva a Mendelssohn. Egli rappresentò la felicità, la grazia, l’armonia, la perfezione della forma e dell’autocontrollo. Non fu affatto un rivoluzionario, ma un classico, come uomo e come artista.
Non conobbe mai l’urgenza, propria dei romantici, di abbattere barriere e raggiungere la libertà assoluta a qualunque costo.
Roland Manuel dice che Mendelssohn fu «felice nella sua musica, felice in amore, avvenente, ricco, supremamente aristocratico, forse gli mancò una cosa soltanto, l’avversità, qualche ostacolo che stimolando la sua energia ne rafforzasse le iniziative ».
E con tutto ciò fu un vero romantico a suo proprio modo.
Aspirò sempre a esprimere i suoi sentimenti e sensazioni; infatti, più fermamente di altri romantici, egli credette nella capacità della musica a esprimere gli stati d’animo. Mentre altri proclamavano che programmi e parole erano necessari a renderla intelligibile, Mendelssohn sostenne che le parole sono soltanto atte a fuorviare, dacché possono essere variamente interpretate, mentre la musica ha una sola interpretazione.
La musica, egli diceva, può comunicare ciò che le parole non possono dire: l’inesprimibile. Se non lo può, « allora, tutto considerato, non scriverei più una nota di musica ».
Non incontrò mai alcuna difficoltà nel dare alla sua espressione musicale una chiara forma, mentre i suoi contemporanei lottavano disperatamente per raggiungerla. Era innata in lui. Egli era stato educato nel rispetto della forma classica ed essa gli fu sempre spontanea.
Nonostante la sua eleganza, l’aristocratica facilità dei modi e la meticolosità, dice Roland Manuel, «egli è veramente profondo, come lo era Mozart.
Mozart e Mendelssohn sono cristallini. Nel caos del movimento romantico, Mendelssohn persistè ad affermare il suo diritto di essere elegante. Ma ciò non gli impedì di essere meravigliosamente sensibile ».
Non possiamo non convenire con Curt Sachs, quando afferma che la felicità fu in lui un fattore limitante: « La sua musica non ci parla di passione, lotta o disperazione. Egli ebbe la classica serenità dell’aristocratico, il modo di esprimersi elegante e la forma raffinata dell’uomo di mondo. Le sue composizioni sono dettate da un cuore amante, non sofferente. Non sono gigantesche né violente, ma solari, felici, pure. »
Mendelssohn usò quasi ogni forma musicale, e la sicurezza di tocco e il buon gusto lo tennero lontano dalla mediocrità.
Può talvolta cadere nel manierismo, ma anche le sue composizioni minori presentano passi di grande bellezza. Il suo famoso Concerto per violino è una delle poche opere immortali di questo genere; le sinfonie e la musica di scena per il shakespeariano “Sogno di una notte di mezza estate hanno già ricuperato tutta la loro iniziale popolarità. Le “Romanze senza parole”, che furono pur dette « poemi dai margini dorati», sono opera di un artista squisito, sincero e sensibile, opera di poesia.

Concerto per violino, in mi minore, op. 64

La sua origine è in rapporto ai più celebrati violinisti del tempo, Ferdinand David e J. Joachim. Il primo era il solista della Gewandhaus nel tempo in cui Mendelssohn ne era il direttore.
I loro incontri erano scarsi, ma si scrivevano frequentemente, e dalle loro lettere possiamo seguire dagli inizi la creazione di questo concerto per violino:« Mi piacerebbe scrivere un concerto per violino, l’inverno prossimo. Ho in mente qualcosa in mi minore, ma non ho la tranquillità necessaria per incominciarlo. » A proposito di questo concerto in rapporto a Joachim, si racconta: “Quando Joachim esordì a dodici anni a Lipsia, eseguì una fantasia di Ernst sull’Otello, in cui vi era un ardito salto sul cantino al do sovracuto (tre ottave sopra il do centrale). Mendelssohn ne fu colpito, e disse in seguito a Joachim che se avesse scritto un concerto vi avrebbe introdotto un intervallo del genere.”
Il concerto fu portato a termine nel 1844 ed eseguito l’anno seguente da David, la prima volta, con l’orchestra della Gewandhaus, diretta dal compositore danese Gade.
David scrisse in seguito a Mendelssohn: « Esso soddisfa tutte le esigenze che si possono chiedere a un concerto per violino.
I violinisti debbono esservi grati per questo dono. Quanto a me, mi sono sempre augurato di poterne scrivere uno simile. » Mendelssohn suonava il violino, ma David ebbe certamente una notevole influenza sulla modellazione della parte solista.
Il concerto deve la sua grande popolarità a nobili pregi musicali e alle possibilità che offre al solista, senza cadere in un vuoto virtuosismo.
Si disse che era «sgorgato dall’anima stessa del violino ».
I. Allegro molto appassionato.
Il solista si slancia subito a cantare una melodia genuinamente « violinistica », presto interrotta da passi più brillanti. L’intera orchestra riprende il tema, a cui segue, nell’oboe, un secondo tema sussidiario, a sua volta subito ripreso dal violino. Ancora un altro tema appare, e lo sviluppo raggiunge il culmine nella grande cadenza del solista. Nella ricapitolazione vi sono molte varianti, e il violino introduce una ricca ornamentazione in contrappunto sul tema principale affidato all’orchestra. Il secondo tema appare continuamente nei« tutti », e nella coda, che accelera il movimento, i due temi sono fusi in modo magistrale. II. Andante. Allacciato al primo tempo da una nota tenuta dell’oboe, è una dolce e bella melodia. Alla fine un gentile e tenero passo, in cui il solista si alterna con gli
archi dell’orchestra, conduce direttamente al terzo tempo. III. Finale, allegro molto vivace, un gaio scherzo che ricorda la lieve scintillante musica del Sogno di una notte di mezza estate, evocatrice di elfi. Il contrastante secondo tema ha un carattere più trionfale, marziale, e i due motivi
sono riuniti in un forte passo contrappuntistico. Verso la fine, in mezzo a uno scintillio di suoni intensamente gioioso, è l’ardito salto fino al do sovracuto.

Sinfonie

Oltre alle cinque sinfonie con numero d’opus, Mendelssohn compose da ragazzo dodici sinfonie per soli archi in cui è già presente l’abilità di comporre organicamente i vari movimenti trattati con la leggerezza ed il brio che informerà molto della produzione della maturità.
Le cinque sinfonie sono così catalogate:

N. 1 in do minore op.11
N.2 “Lobgesang” (per soli, coro ed orchestra) in si bemolle maggiore op.52
N.3 “Scozzese” in la minore op.56
N.4 “Italiana” in la maggiore op.90
N.5 “Riforma” in re maggiore op.107

Sinfonia n. 3 ”Scozzese” in la minore (op. 56)

La sua origine risale all’anno 1829, quando il compositore fece un viaggio in Scozia, e fu particolarmente impressionato dalla suggestività del paesaggio, dal carattere degli abitanti e dai ricordi storici. Dopo la visita a Edimburgo e al castello di Hollyroot, dimora di Maria Stuarda, Mendelssohn scrisse alla famiglia : « Credo di aver trovato lo spunto per l’inizio della mia sinfonia scozzese. » La composizione fu cominciata durante l’inverno 1830-1831, ma non fu terminata che nel 1842.
Pertanto questa sinfonia, stampata nel 1843 come n. 3, risulta cronologicamente posteriore alle sinfonie n. 4 (« Italiana ») e n.5 («Della Riforma»), pubblicate postume come rispettivamente op. 90 e 107.
Fu eseguita per la prima volta il 3 maggio 1842 alla Gewandhaus di Lipsia sotto la direzione del compositore stesso. Il successo da essa ottenuto, un mese dopo, a Londra, indusse il compositore a dedicarla alla regina Vittoria.
Tra le sinfonie di Mendelssohn essa è una delle più rappresentative, benché dal punto di vista musicale intrinseco ” il suo valore sia inferiore a quello dell’«Italiana ».
Il principale difetto della «Scozzese» è una certa uniformità e monotonia dei singoli temi, che sono mantenuti prevalentemente nelle tonalità minori; tuttavia essa possiede vitalità, dovuta alla fresca melodiosità dei suoi motivi e alla pregevole fattura.
Per quanto il compositore non si proponga un particolare programma illustrativo, la sinfonia traduce poeticamente le impressioni da lui ricevute durante il viaggio in Scozia, e l’atmosfera di questo paese è resa con grande efficacia. Ossequiente in linea generale alle buone regole della scuola classica, la composizione contiene però certe libertà che preannunciano i principi informatori del poema sinfonico; i singoli tempi non sono separati, ma si concatenano tra loro, e secondo le indicazioni del compositore la sinfonia deve essere eseguita senza interruzioni.
Essa inizia con l’elegiaco “andante con moto”, seguito dall’ “allegro un poco agitato” in forma sonata, verso la fine del quale compare di nuovo la frase demandante iniziale segue il vivace non troppo in forma sonata, un leggiadro “scherzo” che richiama un mondo di elfi e di gnomi così caro all’ autore.
Il terzo tempo “adagio” è una vera romanza senza parole e una sognante meditazione sulle vicende scozzesi.
Il vigoroso finale “allegro vivacissimo” in forma sonata si distingue per il ritmo scattante e le sonorità che ricordano le zampogne scozzesi.
Un grandioso “allego maestoso assai” in la maggiore conclude la sinfonia.

Sinfonia n. 4 “Italiana” in la maggiore (op. 90)

Ispiratagli dal suo viaggio in Italia nel 1831 e completata nel 1833. La Società Filarmonica di Londra gli diede cento ghinee per questa sinfonia e le ouvertures “La grotta di Fingal” e “Delle trombe”.
Questa, che è forse la più eseguita fra le sinfonie di Mendelssohn, incanta per il suo gaio fascino e perché irradia sole italiano e gioia di vivere.
Ma terminarla fu un compito arduo, e Mendelssohn dubitò più volte di riuscire a finirla; durante la composizione il musicista dovette superare, così disse, « i momenti più penosi che avesse mai sperimentato o avesse potuto immaginare ».
La sinfonia ha quattro movimenti. Il primo “Allegro vivace”, è pieno di melodiosa gaiezza; il secondo “Andante con moto”, è stato denominato « Marcia dei pellegrini » ; il terzo porta l’indicazione “Con moto moderato”, e richiama un po’ il minuetto per il suo andamento ritmico; e l’ultimo movimento,”Presto”, è un saltarello.

Sinfonia n. 5 “Riforma” in re minore op.107

Andante, Allegro con fuoco – Allegro vivace – Andante – Corale: “Ein feste Burg” (Andante con moto), Allegro vivace, Allegro maestoso.
«Non la sopporto più: fra le mie cose è quella che brucerei più volentieri; non dovrà mai essere pubblicata»: così dichiarava Mendelssohn a qualche anno di distanza dalla composizione della Sinfonia”Riforma”, che infatti venne stampata soltanto dopo la sua morte e numerata di conseguenza Quinta, mentre era in realtà la seconda delle cinque sinfonie ufficiali, e la prima scritta in età adulta.
La nascita dell’op. 107 risale infatti al 1829, quando Mendelssohn progetta una grande composizione celebrativa dell’imminente tricentenario della Confessione di Augusta (l’atto con cui, nel 1530, vennero stabiliti i principi della Riforma luterana).
La sinfonia fu tuttavia eseguita il 15 novembre 1832 a Berlino, sotto la direzione di Mendelssohn stesso.
Sul programma la composizione era intitolata “Sinfonia per celebrare una rivoluzione religiosa”, rimanendo pertanto la più celebre fra le molte opere con dichiarata ispirazione protestante lasciate da Mendelssohn (che i genitori ebrei avevano fatto battezzare ed educare nella confessione luterana).
Dell’intenzione celebrativa che aveva presieduto alla nascita della Sinfonia è testimonianza quasi tutta la costruzione dell’opera, dove assume importanza capitale il motivo del cosiddetto “Amen” di Dresda, presentato al termine della lenta introduzione al primo movimento. Si tratta di una melodia familiare a tutti i musicisti di chiesa protestanti, associata con l’idea dello Spirito Santo (e ripresa pertanto anche da Wagner come “tema del Graal” nel Parsifal), il cui motivo compare, in forma più o meno elaborata, in tutti e tre i primi tempi della Sinfonia.
Il quarto movimento si sviluppa sul tema del più celebre corale di Lutero, “Eine feste Burg ist unser Gott” (forte rocca è il nostro Dio).
Dopo l’Andante introduttivo in cui viene enunciato il motivo dell’Amen di Dresda, l’ “Allegro con fuoco” costituente il corpo principale del primo movimento elabora, secondo la forma della sonata, elementi derivati dall’introduzione stessa e specialmente il tema esposto con enfasi al suo ingresso.
In forma di scherzo è il secondo movimento (Allegro vivace), mentre il terzo (Andante) ha più il carattere di una lenta introduzione al quarto, cui si collega senza soluzione di continuità, quasi come il recitativo che presiede una scena o un episodio di opera o di oratorio.
L’”Allegro maestoso” conclusivo suggella infine la Sinfonia con retorica imponenza conforme all’intento celebrativo che presiede all’intera composizione.

Ein Sommernachtstraum (Sogno di una notte di mezza estate) op. 61

Ouverture op. 21 e Musiche di scena per soli, coro e orchestra:
Ouverture – Scherzo – Canzone e coro – Intermezzo – Notturno – Marcia nuziale – Danza bergamasca – Finale
Presentata anche in forma di Suite per sola orchestra: Ouverture – Scherzo – Intermezzo – Notturno – Marcia nuziale

Le musiche di scena composte su incarico del re Federico Guglielmo IV di Prussia per il “Midsummer Night’s Dream” di Shakespeare (rappresentato il 14 ottobre 1843 al palazzo di Potsdam, a cura di Ludwig Tieck) portano la firma di un Mendelssohn nel pieno della maturità creativa, anche se l’autore riprende per l’occasione, come l’aveva composta a diciassette anni, nel 1826, e pubblicata nel 1830, l’ouverture nata dal suo entusiasmo di adolescente per il fiabesco capolavoro di Shakespeare.
Questa composizione (per Mendelssohn la prima nel genere) aveva inaugurato un’idea dell’ouverture da concerto assai prossima a quella assunta successivamente dal poema sinfonico: in essa è adombrata una sintesi ideale dei temi del dramma che, per l’abbondanza delle proposte melodiche e la disposizione degli episodi, finisce per influenzare la stessa condotta formale, in sé rispettosa degli schemi classici della sonata.
La strumentazione tradisce le suggestioni di un romanticismo fatato e aereo, fatto di suoni trasparenti e lievissimi, pressoché inediti per l’epoca.
Su questa linea si articolano i dodici pezzi (comprese due arie e vari melologhi di raccordo) tutti improntati ad un’interpretazione tipicamente romantica della commedia shakespeariana.
Da questi ultimi sono comunemente estratti in sede di concerto otto brani per soli, coro femminile e orchestra, (più raramente undici, comprendendo in tal caso, una “Scena e Marcia degli Elfi”, della durata di due minuti, collocata dopo lo “Scherzo”, nonché un “Prologo” e una “Marcia funebre” di un minuto ciascuno, inseriti fra la “Marcia nuziale” e la “Danza bergamasca”; o, assai più frequentemente, una suite di cinque pezzi per sola orchestra.
Nel primo caso, oltre naturalmente all’ “Ouverture”, troviamo lo “Scherzo” che precede il secondo atto, la “Canzone e Coro” del secondo atto, l’”Intermezzo” che raccorda il secondo al terzo atto, il “Notturno” fra il terzo atto e il quarto, la “Marcia nuziale” che collega il quarto al quinto atto, la “Danza bergamasca” del quarto atto e il “Finale” dell’ultimo atto.
Lo “Scherzo” introduce al mondo dei folletti e delle fate, dove gli spiriti dell’aria, guidati da Puck, volteggiano invisibili e gioiosi, evocati da un capriccioso saltabeccare del flauto.
Nella “Canzone e Coro” le fate cullano dolcemente il sonno di Titania, loro regina. L’”Intermezzo”- un Allegro appassionato che descrive la disperazione di Ermia quando, destatasi, non trova più accanto a sé l’innamorato Lisandro e si mette a cercarlo – si conclude con una piccola, grottesca fanfara (Allegro molto comodo) che prepara l’entrata dei commedianti all’inizio del terzo atto.
Il “Notturno” è un Andante tranquillo che descrive la notte, quando tutti gli amanti sono ancora addormentati nel bosco silenzioso, mentre Ermia continua a cercare il suo Lisandro. Una dolcissima melodia intonata all’inizio dal corno passa poi ai violini e quindi agli altri fiati, agitandosi insensibilmente per rifluire infine di nuovo nella calma iniziale.
La famosa “Marcia nuziale” festeggia i matrimoni finalmente celebrati al palazzo ducale.
La “Danza bergamasca” riprende il tema già ascoltato nell’Ouverture e accompagna la “farsa tragica” rappresentata dai clown in onore degli sposi.
Anche il finale riprende tematicamente l’Ouverture, segnando il momento in cui Oberon e Titania si congedano, benedicendole, dalle felici coppie degli sposi.

Capriccio brillante in si minore per pianoforte e orchestra op. 22

Andante, Allegro con fuoco

Pubblicato nel 1831, è uno dei molti frutti della prodigiosa adolescenza di Mendelssohn, che lo scrisse nel 1825-26.
Prima composizione per pianoforte e orchestra data alle stampe, è anche una delle poche effettivamente rimaste in repertorio oltre al Concerto n. 1 in sol minore, del quale rappresenta in un certo senso una preparazione, colmando il vuoto che separa la pagina matura da quelle nate entro il cerchio magico dell’agiata dimora berlinese del padre (come il Concerto in la min. per pianoforte e archi del 1824).
Come il titolo lascia intravedere, il Capriccio brillante è pagina di condotta formale abbastanza libera (un Allegro con fuoco preceduto da un breve Andante) e di notevole rilievo virtuosistico (già da ragazzo Mendelssohn era pianista di primissimo ordine) giocato soprattutto sull’agilità, la velocità e la preziosa chiarezza del timbro.
Esso fu eseguito la prima volta a Londra il 25 maggio 1832; al pianoforte era lo stesso Mendelssohn.

Concerto n. 1 in sol min. per pianoforte e orchestra op. 25

Molto allegro con fuoco – Andante – Presto – Molto allegro e vivace

Anche Schumann riconobbe nel Concerto in sol min. di Mendelssohn le caratteristiche di un’arte equilibrata ed elegante, che è alla base della naturalezza con cui lo strumento solista porge un virtuosismo brillante e fantasioso, dialogando con un’orchestra sempre preziosa e leggera.
E tale arte traspare sia nella solida costruzione in forma di sonata del primo movimento, che nel terso lirismo l’Andante, collegato al vivacissimo finale da un breve episodio sinfonico, costruito sulle fanfare che figurano a conclusione del primo tempo.
Composto nel 1831 e dedicato alla sua fiamma del momento, la pianista Delphine von Schauroth, il Concerto fu suonato e diretto da Mendelssohn stesso a Monaco, il 17 ottobre dello stesso anno, in un grande concerto di beneficenza interamente dedicato a sue musiche, davanti al re e alla regina di Baviera.
È evidente e innegabile l’influenza di Weber, in particolare del suo Konzertstück in fa min. (1821) nell’immediato collegamento fra i singoli movimenti, procedimento che Mendelssohn ebbe caro ed osservò in altre sue composizioni (per esempio nel Concerto per violino op. 64).
Il carattere drammatico del Concerto n. 1 per pianoforte è avvertito fin dall’inizio nel crescendo pulsante della linea melodica e della sonorità che prepara l’entrata vigorosa del pianoforte, col tema principale scandito poderosamente in ottave.
Una tipica romanza senza parole mendelssohniana è l’ Andante che costituisce il secondo tempo, dove i fiati presenti in orchestra sono soltanto due flauti, un fagotto e un corno, mentre i violoncelli vengono divisi a due. Il tono drammatico è subito ripreso all’inizio del terzo tempo, che irrompe con incisivi squilli di corni e trombe a ridosso dell’accordo di mi magg. con corona che ha appena concluso l’Andante.
E di stile weberiano è indubbiamente il brillante tema principale del terzo tempo con cui il solista, dopo il Presto introduttivo, immette nel Molto allegro e vivace conclusivo.

Concerto n. 2 in re minore per pianoforte e orchestra op.40

Durante la sua luna di miele Mendelssohn scrisse il suo secondo concerto per pianoforte e sebbene qualcuno abbia pensato che in questo concerto mancasse la freschezza e la spontaneità del primo, altri, fra cui Schumann, hanno lodato questo concerto riscontrando nello stesso una grande profondità di sentimenti assieme alla verve del Mendelssohn giovanile.
L’introduzione del solista si manifesta, e ciò risulta particolarmente significativo, più riflessiva e discreta, quasi un’improvvisazione: nessuna idea che si evolva successivamente per divenire il tema principale del primo movimento.
Le esigenze accademiche sono di nuovo fortemente modificate nell’ottica di una verità che sicuramente costituisce l’anima del tratto spirituale dell’ “Adagio” centrale ancora una volta introdotto senza alcuna pausa come fosse una dolce riflessione del solista.
Il finale è vivace, allegro e dall’inizio alla fine non fa riferimento al materiale tematico del primo movimento.
Per Schumann queste caratteristiche furono conseguenza di un lavoro rapido nel miglior senso della parola, quindi positivo come se “se si fosse avvicinato all’albero e colto tempestivamente il frutto maturo”.

Concerti in mi maggiore e la bemolle maggiore per due pianoforti ed orchestra

I due concerti per due pianoforti sono stati scoperti in un periodo relativamente recente; senza numero d’opera, con la datazione 1824/25 e 1828/29 rispettivamente.
Tutti e due rimasero nell’oblio totale fino al 1950 quando le pressioni esercitate per aver accesso gli archivi della Biblioteca di Stato a Berlino (che si trovava allora dall’altra parte del muro, ossia a Berlino est) furono ben ricompensate.
Mendelssohn preferiva il concerto in mi maggiore a quello in la bemolle, ma dei due è quest’ultimo che ha certamente più successo.
Il lirismo è qui leggermente più insinuante; queste due opere esprimono pienamente il procedimento dei due pianoforti privilegiando la grazia e le risorse dei cambi di mano nonché la brillantezza che l’esecuzione a quattro mani può offrire.
I movimenti lenti centrali sono delle reali occasioni di calma durante le quali si fa riferimento al “belcantismo” di Bellini.
Il finale del concerto in la bemolle è stato criticato, trovando in esso una certa debolezza, ma il tono brillante sicuramente avrà fornito un superbo veicolo di popolarità e spettacolarità al giovane Mendelssohn ed a sua sorella Fanny per dimostrare la loro brillantezza esecutiva e le loro celebri prodezze pianistiche in duo. Una certa edulcorazione elaborata nei due concerti è presumibilmente nata per soddisfare il grande pubblico.
Due o tre anni più tardi Mendelssohn compose il suo Ottetto che figurerà fra i suoi capolavori più duraturi.
I concerti per pianoforte, sia quelli scritti per uno, che quelli per due pianoforti, non possiedono quella magia presente e concentrata nelle opere maggiori, ma conservano anche oggi le loro qualità di spigliatezza, di gioco spiritoso e brillante, meritando più di quanto fosse preteso all’epoca da loro, ossia composizioni per ascoltatori occasionali.
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Delle sinfonie giovanili per orchestra d’archi esiste una celebre edizione che vede due grandi specialisti di Mendelssohn affrontare queste brillanti composizioni con la dovuta serietà ed mpegno: si tratta di Kurt Masur alla guida della “sua” Gewandhaus di Lipsia.
Gli archi dell’orchestra tedesca esprimono una luminosità indicibile diretti da uno specialista che anima queste Composizioni con una lettura assolutamente coerente con lo spirito che le ha partorite: la performance presenta una “souplesse” degna dei migliori elogi.
La stessa accoppiata di Interpreti ha presentato, sempre nel 1970, l’integrale delle cinque Sinfonie maggiori avvalendosi, nella seconda, del Coro della Radio di Lipsia e di Solisti di primo livello.
Masur si esalta in queste opere, in cui dimostra un’ affinità particolare, attraverso una direzione interiorizzata frutto di un’arte superba.
L’orchestra sembra eccellere a sua volta in quella Lipsia che vide tanta parte della vita di Mendelssohn e della sua attività concertistica: non dobbiamo dimenticare che proprio con la medesima Orchestra Mendelssohn stesso diresse le proprie opere e quelle dei più grandi artisti a lui contemporanei.
Il Coro è all’altezza, disciplinato ed omogeneo; i Solisti particolarmente ispirati e di prima grandezza.
L’integrale di Karajan con i Filarmonici di Berlino (Coro dell’Opera di Berlino e superbi Solisti nella Seconda sinfonia) presenta una versione di tutto rispetto , ma analizzando le singole pagine, si trova forse troppa ricercatezza, un suono sempre pulito ed elegante, ma, nei confronti della versione di Masur, paga qualcosa in fatto di interpretazione risultando la stessa sicuramente più anonima.
Degli Interpreti che si sono cimentati in Mendelssohn proponendo singole sinfonie, un posto a parte merita Klemperer con la Philarmonia di Londra.
La sua versione della “Italiana” è di assoluto riferimento per la verve, la vivacità del ritmo che fa cantare gli strumenti curando nello stesso tempo con finezza il fraseggio di ciascun tema, e ciò sia nei movimenti lenti che in quegli brillanti.
Klemperer ancora una volta non finisce di stupire anche in queste opere che possono sembrare lontane dal suo mondo.
A confermare come questo immenso Direttore fosse duttile, sì da affrontare Mendelssohn con una vivacità che lo spirito delle sue partiture impone, esiste la una splendida versione del “Sogno di una notte di mezza estate” opera 61.
Klemperer, reputato un direttore dai tempi lenti, cerebrale quando non freddo, qui invece fornisce la dimostrazione di una direzione vivace, leggera, capace di infondere nei suoi musicisti uno spirito ed una grazia sempre presenti.
I Solisti ed il Coro della Philarmonia di Londra sono assolutamente all’altezza del Direttore in questa edizione di assoluto riferimento.
Schuricht, con l’Orchestra Sinfonica della Radio Bavarese, ci presenta un’ edizione del “Sogno” tale da qualificarsi come uno dei più grandi interpreti del repertorio romantico della sua generazione.
Eccelle per la sua assoluta semplicità ed il rigore naturale per la sua capacità di portare avanti il discorso musicale secondo una logica che non lascia spazio o motivo ad obiezioni.
Nell’ambito di una marea di interpretazioni alla fine superficiali e mediocri, questa si impone fra le indispensabili.

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Dei concerti per pianoforte e orchestra di Mendelssohn non esistono se non due eccezionali versioni, frutto la prima di un’accoppiata di eccezionali interpreti, la seconda di una pianista particolarmente versata nel repertorio mendelssohniano.
Si tratta di Rudolf Serkin accompagnato da Ormandy con l’Orchestra di Philadelphia e di Moura Lympany con la Royal Philarmonic di Londra diretta da Sargent.
Le interpretazioni Serkin hanno le caratteristiche della vivacità, della leggerezza strumentale e brillantezza portate ad una assoluta perfezione.
Il pianismo di Serkin è spettacolare e vibrante, sempre all’altezza delle sonorità intense volute da Ormandy che, a sua volta, fa “correre” la Philadelphia in queste partiture dove la verve e la “vitesse” devono essere presenti come non mai.
La Lympany fu una specialista mondiale di questo repertorio: portò Mendelssohn, sia nel concertismo sinfonico, che nelle interpretazioni per solo pianoforte in tutto il mondo suscitando elogi della critica e del pubblico.
L’intelligenza delle sue interpretazioni sapeva ben differenziarsi nelle varie partiture e, malgrado la sempre presente grazia femminile tanto gradita specie nel repertorio solistico di questo Autore, nei concerti sinfonici era capace di un tocco vibrante e sonoro ben accompagnata da uno specialista della conduzione come Sargent.
Pagine raramente eseguite, i due concerti per due pianoforti e orchestra presentano un’edizione di assoluto riferimento nella versione delle anni ‘60 di Gold e Fizdale accompagnati dall’orchestra di Philadelphia diretta da Ormandy .
Questo fantastico duo pianistico regala dignità ai concerti di Mendelssohn grazie all’impegno affatto di routine dei due Solisti. La coesione e l’affiatamento è tale da nascondere le due tastiere per far intendere un unico suono: ciò costituisce il pregio maggiore di questa versione e più in generale di tutte le opere per due pianoforti presentate da questa Formazione americana.
Vengono così nobilitate queste pagine (nate come concerti d’occasione a beneficio delle tournée di Mendelssohn con la sorella Fanny al secondo pianoforte) e, trattate con una qualità esecutiva di assoluto rilievo dai solisti e da un’importante orchestra sinfonica, riescono ad esprimere degnamente della musica che dovrebbe forse trovare più frequentemente luogo nel repertorio delle sale da concerto contemporanee.
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L’Opera 64 per violino orchestra è forse la pagina più frequentemente eseguita del Compositore di Amburgo, vero passaggio obbligato di tutti i grandi violinisti.
Le edizioni di riferimento sono pertanto numerose, ma non sarà affatto imbarazzante scegliere fra le stesse quelle che effettivamente possiedono una caratura od un’originalità assolutamente superiore.
Menuhin ha affrontato più volte il concerto, ma il risultato sicuramente più esaltante è quello del 1952 assieme a Furtwängler con l’Orchestra Filarmonica di Berlino.
Si tratta di un’edizione fortemente emozionante per la presenza di queste due immensi Artisti che si impegnano in una gara di traduzione della partitura, già di per sé fortemente aderente al Romanticismo, aggiungendo la loro carica interiore realizzata con quella maestria a cui siamo fortunatamente abituati.
Esistono sicuramente delle edizioni molto più tecniche di questo concerto e magari con un violino più sonoro di quello di Menuhin, ma poche possono starne alla pari in fatto di intelligente partecipazione e realizzazione sentimentale.
Isaac Stern con la Philadelphia di Ormandy si supera in una versione del 1960 in cui, oltre alla straordinaria tecnica che emerge in particolare nel primo e nel terzo movimento del concerto, offre un’ originalissima lettura del movimento centrale grazie al respiro ed al fraseggio pressoché unici tanto che l’ abbiamo portato ad esempio nella parte iniziale di questo volume.
Nessuno come Stern respira, prendendosi anche delle libertà per altro assai apprezzate, e fa sospirare l’ascoltatore entrando nel profondo di quel sentimento di dolce Romanticismo che fa del movimento centrale dell’Opera 64 una delle pagine più amabili dell’intera letteratura per violino e orchestra.
La versione di Suk con l’orchestra Filarmonica Ceca diretta da Ancerl si colloca fra le più grandi interpretazioni di questo Concerto.
Particolarmente ammirevole è la coesione fra Direttore e Solista a sottolineare il valore del violino di Suk con la bellezza degli archi dell’Orchestra Ceca, tutta tesa a esaltare il canto del solista.
Jasha Heifetz è più volte presente nel concerto di Mendelssohn, ma di tutte le sue versioni sicuramente la prima, con l’orchestra Filarmonica di Londra diretta da Beecham, può ritenersi la migliore.
Il Solista, al vertice della sua carriera, fornisce una dimostrazione emozionante del suo genio di Interprete e del suo talento strumentale.
Ogni difficoltà insita nel Concerto sembra azzerata dalle immense capacità di Heifetz che trova nei due movimenti estremi il modo più che eccellente di esprimere le sue grandissime doti di musicista completo.
Vi è un’ altra sua importante versione con l’Orchestra Sinfonica di Boston diretta da Münch del 1959.
Qui Heifetz fa a gara con Münch in fatto di sonorità e di tecnica, staccando tempi vertiginosi e che trovano nel finale un momento di assoluto virtuosismo: si tratta del più veloce metronomo staccato in tutta la storia del Concerto.
Francescatti e Szell con l’Orchestra Sinfonica della Columbia forniscono il meglio di ciò che ha fatto la gloria del violinista francese: la sonorità “naturalmente” emozionante del suo archetto, la semplicità e la tenerezza che lo resero Interprete privilegiato del repertorio Classico e del Primo Romanticismo.
La chiarezza dell’accompagnamento di Szell è altrettanto ricca di quelle intensità che rende ancora assolutamente unico un accompagnamento orchestrale “mille volte sentito”.
Grumiaux, accompagnato negli anni ‘60 dalla Philarmonia di Londra diretta da Jan Krenz, si trova perfettamente a suo agio in questa pagina fortemente romantica grazie alla sonorità calda del suo violino, alla splendida quarta corda, alla tecnica superiore che sembra aver “cancellato tutte le difficoltà della partitura”; il tutto al servizio di un’ interpretazione molto intimistica quasi nell’ottica di musica da camera, facilitato in questo dall’accompagnamento discreto, senza essere superficiale, di una splendida Philarmonia .

Sawallisch Wolfgang (1923) Direttore tedesco. Ha diretto le principali orchestre europee nel repertorio classico romantico e post romantico. Dal 1992 è direttore principale anche dell’orchestra di Philadelphia. Ospite spesso a Bayreuth, eccelle nelle opere di Wagner e Richard Strauss. Ottimo pianista, si esibisce spesso come accompagnatore di lieder.
Mengelberg Willem (1871) Direttore olandese. Dopo aver diretto il Conservatorio di Lucerna, passò al Concertgebouw di Amsterdam che divenne, grazie a lui, uno dei migliori complessi mondiali
Leibowitz René (1913)Direttore e musicologo francese di origine polacca. Scrisse molti trattati ed aderì alla musica dodecafonica. Fu anche valente direttore sia nel repertorio di tradizione che nelle opere della Scuola di Vienna.
Mackerras Charles(1925).Direttore australiano.Ha diretto le principali orchestre inglesi divenendo grande specialista del’700 di cui è attento filologo.Non disdegna per altro l’opera del primo ‘900, fra cui quella di Janacek di cui ha inciso l’integrale.
Guschlbauer Theodor(1939)Direttore austriaco.Allievo di Karajan e von Matacic, lavorò all’Opera di Vienna divenendo poi direttore principale a Strasburgo e Düsseldorf.
Solti Georg (1912)Direttore ungherese. Lavorò molto nella Lirica da Mozart a Verdi, da Wagner a R.Strauss per dedicarsi in seguito alla sinfonica alla guida delle principali orchestre londinesi ed americane (Chicago). Eccelse in Wagner e R.Strauss per l’Opera, Beethoven e Mahler nella sinfonica.
Paita Carlos (!933)Direttore argentino naturalizzato svizzero. Dirige le principali orchestre londinesi nel repertorio sinfonico eccellendo in particolare in opere del periodo Romantico e Post Romantico. Importanti le sue incisioni di Bruckner, Mahler, Dvorak e Ciaikowski.
Kubelik Rafael (1914). Direttore e compositore svizzero di origine ceca. Figlio del grande violinista Ian, fu a capo dell’orchestra sinfonica di Praga, Chicago Londra e Monaco di Baviera, nonché direttore ospite delle principali orchestre europee è stato molto apprezzato nel repertorio delle scuole nazionali (Smetana e Dvorak) del Romanticismo tedesco e del posto Romanticismo con particolare riferimento a Mahler e Richard Strauss.
Lipatti Dinu(1917). Pianista romeno. Straordinario Pianista prematuramente scomparso che fornì di Mozart, Schumann e Bartok interpretazioni insuperabili. Dotato di una tecnica magistrale riesce totalmente a sfruttarla in funzione del raffinatissimo gusto.
Haskil Clara (1895). Pianista romena naturalizzato svizzera. Dopo il debutto viennese a soli nove anni si perfezionò a Parigi con Cortot e Fauré. Musicista di straordinaria eleganza nel tocco nel fraseggio, manifestò una grande forza espressiva a dispetto dell’esile e fragile fisico. Suonò in coppia con grandi solisti nella cameristica e nella concertistica eccelsa e in Mozart, Beethoven, Schubert e Schumann.
Van Otterloo Wilhelm (1907). Direttore olandese. Famoso per le sue interpretazioni del repertorio tedesco posto romantico e di quello francese del primo 900, fu nominato dal 1949 direttore dell’orchestra sinfonica della Residenza dell’Aia che portò ad un livello paragonabile al Concertgebouw di Amsterdam.
Argerich Martha (1941). Pianista argentina allievo di Gulda e Magaloff. Vincitrice del premio Chopin di Varsavia nel 1955 si è affermata come fra le più brillanti concertiste della sua generazione. Dotata di eccezionale tecnica e vigoroso temperamento eccelle nel repertorio romantico e del primo ‘900. Suona spesso nella cameristica in duo con i più grandi artisti contemporanei.
Frager Malcolm (1907). Pianista americano. Allievo di Friedberg che aveva studiato con Clara Schumann, è attento interprete del repertorio romantico di cui predilige le edizioni filologiche.
Horenstein Jasha (1898). Direttore statunitense di origine russa. Diress i Berliner Philarmoniker dal 1925 al ’28; poi, con l’avvento del Nazismo (1933), si trasferì a New York. Fu grande interprete del repertorio romantico e Post Romantico dimostrando attenzione anche per la musica contemporanea.
Rozdestvenskij Gennadi (1931). Direttore russo. Fu il più giovane Direttore nella storia del Teatro Bolscioi di Mosca. Diresse anche l’Orchestra della Radio dell’Unione Sovietica dimostrandosi un autorevole interprete del repertorio nazionale ed in particolare di Ciaikovsky e Prokofiev.
Navarra André (1911). Violoncellista francese. Docente al Conservatorio di Parigi, fu concertiste a di fama internazionale, apprezzato interprete del repertorio barocco classico e Romantico. Sono passate alla Storia le sue suite per violoncello solo di Bach.
Ancerl Karel (1908). Direttore ceco. Diresse l’opera di Praga e la Filarmonica Ceca che fece conoscere nel mondo come complesso di altissimo livello sinfonico. Fu sublime interprete del repertorio nazionale e del Romanticismo tedesco.
Limpany Moura(1916). Pianista inglese. Fanciulla prodigio, già a tredici anni era applaudita per le sue esecuzioni del repertorio romantico dimostrandosi una particolare specialista di Mendelssohn.
Sargent Malcom (1895). Direttore inglese. In gioventù si mise in luce come direttore di balletti, successivamente alla testa delle principali informazioni londinesi fu stimato interprete del repertorio classico romantico e di autori britannici. Accompagnò importante solisti.
Gold Arthur(1917) Fizdale Robert(1920). Celebre duo pianistico formatosi nel 1946 dal canadese Gold e dallo statunitense Fizdale. In breve il duo divenne fra i più apprezzati del ‘900 per l’ardita tecnica e soprattutto per la coesione fantastica frutto di un’arte ricercata. Oltre al repertorio tradizionale, il duo fu noto per l’attenzione alla musica contemporanea presentando in prima assoluta il “Concerto” di Luciano Berio.
Stern Isaac (1920). Violinista ucraino naturalizzato statunitense. Dal 1939 inizia una carriera brillante imponendosi come maestro dallo stile tecnicamente ineccepibile, fortemente comunicativo, capace di una vibrante vitalità. Fu grande sia nella sinfonica che nella cameristica affrontando un repertorio vastissimo da Bach a Bartok.
Krenz Jan (1926). Direttore polacco. Musicista di fama internazionale, ha lavorato con le più importanti orchestre europee collaborando anche con grandi solisti come Szering e Grumiaux. Eccelle nel repertorio nazionale contemporaneo.